Lui è seduto al centro. Lucido. Strafottente. Ben vestito. Il presentatore gli ronza intorno, lo tocca, gli parla, forse lo lecca. Lui è il totem. L’epifania dello share. La granata che perfora lo schermo. Intorno. Intellettuali smunti, giornalisti incalliti, politicanti in disarmo, commentatori in disuso, avvocati, insomma, uomini dello spettacolo. Carne da macello. Che lui, la belva, divora, urlando, squalifica con un gesto, d’altronde, quelli sono lì per quello. Sono cibo. Fabrizio Corona è il genio del nostro millennio. Figlio di buona famiglia, frequenta il ‘bel mondo’, recita la parte del ‘ribelle’ e catodicamente vince, perché questo è il tempo in cui sono la televisione e il rondò dei social ad assolvere o a punire, mica un tribunale. E Corona vince.
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La sapienza di chi declama l’essere umano nella sua catartica debolezza – sesso, denaro, ambizione – è superiore al filologo di Kant, all’esteta che si bea di Heidegger e si beve Sartre. Fabrizio Corona, che lavora con il laido, in fondo, è come un prete.
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La brutalità dell’urlo. Corona fa quello che fanno tutti: dall’automobilista convinto di avere la precedenza al Ministro Salvini. Non ascolta. Urla. Vince il più urlante. Sintomo dell’era della frustrazione e di un esibizionismo imbarazzante. Nell’epoca in cui il vizio era una malizia dell’intelletto e il banditismo una scelta poetica, si preferiva l’ascolto. Ascolto e attacco, come i cobra. Ora si urla. Come le scimmie. Tanto tutti, alla fine – da Salvini a Corona – non mordono, si piegano.
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Donare aggettivi a Fabrizio Corona è inutile. Corona vince: 791mila ‘mi piace’ su facebook; 573mila seguaci su instagram. Dove va lui, questo Everest dell’ego in variopinta avaria, vanno tutti, sguazza nel Mar Morto dello show. Cosa ci vedono in Corona? L’icona dell’era della frustrazione. Lui – all’apparenza – è bello, muscoloso, figo, tiene per le palle i potenti, è circondato dalla figa, più lo arrestano più piace. Disorienta i canoni: la giustizia è ingiusta, il giusto è un abuso ingiustificato, l’etica è eretica.
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La canina idiozia del pubblico italiano – non quella di Corona, il furbetto del quartiere accanto – è insopportabile: imbarcatemi sul primo Aquarius che passa, me ne vado in Africa con il Congo di Kurtz a lacerarmi i tendini.
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