Secondo una leggenda africana, le donne persero coda e pelliccia quando il dio della creazione insegnò loro a fare la birra. Fu così che ebbe origine l’umanità. Da allora, incontriamo l’alcol ovunque, dai primi insediamenti neolitici fino alle astronavi che sfidano l’ignoto spazio profondo, e insieme al bere troviamo la sua compagna più sfrenata, allegra e sovversiva: l’ubriachezza. L’ubriachezza è universale e sempre diversa, esiste in ogni tempo e in ogni luogo. Può assumere la forma di una celebrazione o di un rituale, fornire il pretesto per una guerra, aiutare a prendere decisioni o siglare contratti; è istigatrice di violenza e incitamento alla pace, dovere dei re e sollievo dei contadini. Gli esseri umani bevono per sancire la fine di una giornata di lavoro, bevono per evasione, per onorare un antenato, per motivi religiosi o fini sessuali. Il mondo, nella solitudine della sobrietà, non è mai stato sufficiente.
In “Breve storia dell’ubriachezza” lo scrittore Mark Forsyth osserva il nostro passato dal fondo di una bottiglia, da quello spazio vitale – il bar – che è abolizione temporanea delle regole dominanti, festa del divenire e convegno di gioie. Grazie a una scrittura colta ed esilarante, vivremo l’ebbrezza di un viaggio che dalle bettole degli antichi sumeri penetra nelle stanze di un simposio ateniese; assisteremo al sorso di vino che ha cambiato il mondo per sempre, quello bevuto da Cristo nell’ultima cena; entreremo nella taverna in cui è nata la letteratura inglese e ascolteremo il crepitio dei revolver nei peggiori saloon del Selvaggio West. Infine, come in quell’antica leggenda africana, scopriremo che la nostra civiltà nasce grazie al sacro dono dell’alcol: perché bere è umano, ubriacarsi è divino.
Di seguito, pubblichiamo un estratto da Breve storia dell’ubriachezza
Temo di non sapere davvero che cosa sia l’ubriachezza. Potrebbe sembrare una confessione bizzarra, da parte di un tale che si accinge a scriverne una storia, ma a dirla tutta, se gli autori consentissero a un dettaglio trascurabile come l’ignoranza di bloccare la propria scrittura, le librerie sarebbero vuote. Una vaga idea ce l’ho, comunque. Conduco esaurienti indagini empiriche sull’ebbrezza dalla tenera età di quattordici anni. Per molti versi, amo dipingermi come una specie di moderno sant’Agostino, che si chiedeva: «Che cos’è il tempo, dunque? Se nessuno me lo domanda, so che cos’è. Se però volessi spiegarlo a chi me lo domanda, non lo saprei più». Sostituite la parola tempo con ubriachezza e otterrete all’incirca il mio sacro punto di vista.
Possiedo alcune basilari nozioni mediche. Un paio di gin tonic annebbieranno i vostri riflessi; una dozzina o giù di lì vi permetteranno di familiarizzare nuovamente con il vostro pranzo e renderanno complicato lo stare in piedi, e una quantità imprecisata, che non ho intenzione di approfondire, vi ucciderà. Ma non è questo ciò che conosciamo (in senso agostiniano) dell’ubriachezza. Chiaro, se un alieno bussasse alla mia porta e mi domandasse perché la gente di questo bizzarro pianeta continua a bere alcolici, non risponderei: «Oh, è solo per annebbiarci i riflessi. In fin dei conti, è perché non vogliamo diventare troppo bravi a ping-pong».
A questo punto, di solito, viene tirata in ballo anche un’altra fandonia – la storia dell’alcol che allenta i freni inibitori. Nulla di più lontano dalla verità. Quando sono brillo faccio le cose più disparate, cose che non avrei mai voluto fare da sobrio. Posso parlare per ore con gente che, da sobrio, considererei tediosa. Mi ricordo anche di essermi sporto dalla finestra di un appartamento di Camden Town, una volta, agitando un crocifisso per aria mentre esortavo i passanti a pentirsi. Non sono cose che vorrei fare quando sono sobrio e che evito soltanto perché non ho abbastanza fegato.
Comunque, alcuni effetti dell’alcol non sono causati dall’alcol. Basta distribuire birre analcoliche senza dire alle persone che non contengono alcol, dopodiché non dovrete fare altro che mettervi a guardare la gente che beve e prendere appunti. I sociologi lo fanno di continuo, e i risultati sono coerenti e solidi. Per prima cosa, al bar non bisogna fidarsi dei sociologi; vanno sorvegliati con occhi di falco. In secondo luogo, se provieni da una cultura in cui è ritenuto che l’alcol renda più aggressivi, diventerai più aggressivo. Se provieni da una cultura in cui è ritenuto che l’alcol renda più religiosi, verrai pervaso dal misticismo. Si può anche cambiare da bevuta a bevuta. Se l’infido sociologo annuncia di essere impegnato a studiare i superalcolici e la libido, tutti diventeranno libidinosi; se dichiara che il tema è la musica, tutti quanti si metteranno a cantare all’improvviso.
Le persone modificano addirittura il loro comportamento a seconda del tipo di alcolico che stanno assumendo. Nonostante il principio attivo, l’etanolo, sia identico, le persone altereranno la loro condotta in base alle origini e alle associazioni culturali del cicchetto in questione. È molto probabile che gli inglesi diventino rissosi dopo qualche pinta di lager, ma date loro del vino – che è associato all’eleganza e alla Francia – e si faranno pacati, sofisticati e, nei casi più seri, si faranno spuntare un basco. C’è un motivo se esistono i «lager-louts» (i teppisti da birra) ma non i vandali del vermouth o i contestatori del Campari.
Alcuni si arrabbiano molto, quando glielo spieghi. Insistono nel sostenere che l’alcol è la causa di quello che a loro risulta sgradito – la violenza, per esempio. Si indignano se fai loro notare che anche le culture in cui l’alcol è bandito sono violente. Se argomento – e posso farlo – che nonostante io beva ben più della maggioranza, non picchio qualcuno dall’età di circa otto anni (molto prima che le inebrianti sostanze alcoliche venissero a contatto con le mie placide labbra), mi risponderanno: «Be’, sì, ma gli altri?». Sono sempre gli altri, accidenti a loro: gli altri sono l’inferno. Quasi tutti, però, sono in grado di trascorrere una cena piacevole bevendo per l’intera serata senza pugnalare nemmeno una volta l’ospite seduto alla loro destra.
Nell’improbabile eventualità che veniate catapultati all’improvviso in un altro luogo e in un altro tempo, un abitante dell’antico Egitto rimarrebbe molto sorpreso scoprendo che non bevete allo scopo di ricevere una visione di Hathor, la dea dalla testa di leone: pensavo lo facessero tutti. Uno sciamano del neolitico si domanderebbe perché mai non stiate comunicando con i vostri antenati. Un suri etiope vi chiederebbe, probabilmente, perché non avete ancora cominciato a lavorare. Perché è quello che fanno i suri quando bevono; come vuole il detto: «Dove non c’è birra, non c’è lavoro». Tanto per fornire incidentalmente un’informazione tecnica, trattasi di bevuta transizionale: si beve per sancire il passaggio da un momento all’altro della giornata. In Inghilterra beviamo perché abbiamo finito di lavorare, i suri bevono perché hanno iniziato.
Per ribaltare la questione, quando Margaret Thatcher è morta, non è stata sepolta con tutti i suoi calici da vino e una fornitura di alcolici degna dello spaccio all’angolo. E lo riteniamo normale. Anzi, se fosse accaduto ci sarebbe parso bizzarro. Ma quelli bizzarri siamo noi, siamo noi gli strambi, siamo noi gli eccentrici. Per la maggior parte della storia umana, infatti, i leader politici sono stati seppelliti con tutto l’occorrente per una bella sbronza post mortem. Dai tempi lontani di re Mida fino all’Egitto protodinastico, passando per gli sciamani dell’antica Cina e per i vichinghi (per forza, maledizione), anche chi ha smesso di respirare da un pezzo non disdegna di conciarsi male, di tanto in tanto – basterebbe chiederlo alla tribù kenyana dei tiriki, che per sicurezza versano birra sulle tombe dei loro progenitori.
L’ubriachezza è pressoché universale. L’alcol esiste in quasi ogni cultura del mondo. Le uniche che non sembravano troppo propense – quella nordamericana e australiana – sono state colonizzate da chi lo era. E in ogni tempo e in ogni luogo l’ebbrezza è qualcosa di differente. È una celebrazione, un rituale, una scusa per picchiare la gente, un modo per prendere decisioni o siglare contratti, e migliaia di altre pratiche specifiche. Quando gli antichi persiani dovevano esprimersi su un’importante questione politica, dibattevano l’argomento per due volte: da ubriachi e da sobri. Se arrivavano alla medesima conclusione entrambe le volte, passavano all’azione.
Ecco di che cosa parla questo libro. Non riguarda l’alcol in sé e per sé, riguarda l’ubriachezza: le sue trappole e le sue divinità. Da Ninkasi, la dea sumera della birra, ai quattrocento coniglietti sbronzi del Messico.
Prima di cominciare è opportuno fare alcune puntualizzazioni. Per prima cosa, questa è una storia breve. Una storia completa dell’ubriachezza sarebbe una storia completa dell’umanità e richiederebbe una quantità davvero eccessiva di carta. Ho invece deciso di selezionare alcuni momenti storici per scoprire il modo in cui le persone gestivano le loro sbornie. Come funzionavano davvero le cose in un saloon del vecchio West, o in una birreria medievale inglese, o in un simposio greco? Che cosa succedeva con esattezza quando una ragazza egizia decideva di uscire a fare baldoria? Certo, ogni serata è diversa, ma è comunque possibile arrivare a una buona – per quanto vaga – descrizione.
I libri di storia tendono a raccontarci che il tal dei tali era ubriaco, ma non ci raccontano il bere in maniera dettagliata. Dove è successo? Con chi? In quale momento della giornata? Il bere è sempre stato accompagnato da una serie di regole, che vengono raramente riportate per iscritto. Nell’Inghilterra dei nostri giorni, per esempio, nonostante non ci sia una legge in merito, chiunque sa perfettamente che non bisogna bere prima di mezzogiorno – fatta eccezione, chissà poi perché, per quando ci si trova in un aeroporto o a una partita di cricket.
Ma nel bel mezzo delle regole c’è l’indisciplinata ubriachezza. L’anarchica al cocktail party. È lei (penso sia una lei: le divinità dell’alcol lo sono, di solito) quella che voglio osservare. Idealmente, mi piacerebbe arrestarla e scattarle una foto segnaletica, ma non sono certo che si possa fare. Almeno quando quell’alieno curioso mi domanderà che cos’è l’ubriachezza, avrò qualcosa da mostrargli.