“Un racconto recitato da un folle, gonfio di suono e di furia, che non significa nulla”: chiediamo venia al grande bardo, ma quel che ci viene propinato ogni giorno da Donald Trump, dai protezionisti di tutto il mondo e dai loro seguaci nostrani, fa venire in mente i versi del Macbeth di William Shakespeare. Prendiamo l’ultimo esempio di casa nostra. Perché il Jfta sì e il Ceta no? Siamo sicuri che il comitato “trattati tossici” che mette insieme lobby agricole e sindacati come la Cgil, dirà no a entrambi, ma intanto il Movimento 5 Stelle e la Lega bocciano il trattato di libero scambio con il Canada, mentre lasciano passare quello con il Giappone che è stato firmato ieri dall’Unione europea. I grillini dicono che se c’erano loro a controllare sarebbe stato meglio, ça va sans dire, tuttavia con Tokio sono disposti a chiudere un occhio. Shinzo Abe va ancora bene, quel bellimbusto liberal-progressista di Justin Trudeau, lui proprio no. La ragione, allora, è squisitamente politica non economica?
In attesa di spiegazioni più dettagliate, c’è da essere contenti se cadono dazi a tariffe su beni europei per 58 miliardi di euro e servizi per 28 miliardi, destinati al Giappone; tra l’altro ne beneficiano le nostre calzature, il prosecco, l’aceto balsamico di Modena, tanto per fare qualche esempio, prodotti che potrebbero approfittare anche del Ceta. E tuttavia resta da chiedersi come mai si usano due pesi e due misure. Forse perché questa volta le corporazioni agricole, tradizionalmente le più favorevoli a politiche assistenziali, hanno giocato un peso inferiore rispetto a quelle dell’industria. Anche questo è un bene visto che su quasi 500 miliardi di esportazioni annue appena 40 miliardi riguardano il settore agro-alimentare. L’Italia è uno dei maggiori paesi industriali e vende all’estero soprattutto macchinari, impianti, manufatti, come è giusto che sia, anche se grillini e leghisti si comportano alla stregua di una repubblica delle banane (letteralmente parlando).
Perché il Jfta sì e il Ceta no? Siamo sicuri che il comitato “trattati tossici” che mette insieme lobby agricole e sindacati come la Cgil, dirà no a entrambi, ma intanto il Movimento 5 Stelle e la Lega bocciano il trattato di libero scambio con il Canada, mentre lasciano passare quello con il Giappone che è stato firmato ieri dall’Unione europea
Un racconto recitato da un folle, appunto. L’irrazionalità segna l’insieme di questa sbornia protezionista che attraversa la politica nei paesi occidentali. Altro che salvare gli operai del Midwest. La Camera di commercio americana che rappresenta circa tre milioni di imprenditori ed operatori economici, una lobby influente legata soprattutto ai repubblicani, ha lanciato una campagna contro i dazi di Trump perché minacciano, secondo le stime, oltre due milioni e mezzo di posti di lavoro. L’associazione intende fornire un modulo ai cittadini dei vari stati per contattare i loro rappresentanti al Congresso ed esprimere la loro opposizione ai dazi. Tra i dati diffusi dalla Camera di Commercio quelli relativi a tre stati dove il consenso di Trump è molto alto: in Louisiana si stimano a rischio 553 mila posti di lavoro e 5,3 miliardi di dollari di export, in Alabama 567 mila posti di lavoro e 3,6 miliardi di dollari di export, in South Dakota 130 mila posti di lavoro e 129 milioni di export.
La storia, del resto, offre solo conferme degli effetti nefasti del protezionismo. A cominciare dalla legge Smoot-Hawley nei primi anni ’30: voleva difendere l’economia americana con dazi e tariffe sui prodotti esteri (fino al 60% su ben 20 mila merci), in tre anni le importazioni crollarono del 66% e le esportazioni del 61%, il tasso di disoccupazione passò dall’8 al 25%. Da allora gli americani giurarono ”mai più” e fin dal 1944 si impegnarono a creare, una volta vinta la guerra, un sistema economico internazionale basato sul libero scambio e sulla centralità del dollaro. Violarono alcune volte il loro impegno: lo fece Ronald Reagan e se ne pentì presto, lo fecero Bush padre con le auto giapponesi e Bush figlio con l’acciaio (anche lui), ma si accorsero che si stavano sparando sugli alluci, non solo non riuscirono a proteggere posti di lavoro, ma persero anche voti. Se ne accorgerà anche Trump, speriamo che non avvenga quando le uova saranno già rotte.
Di nuovo, un racconto recitato da un folle, perché è da idioti la stessa idea di invertire un processo cominciato più di settant’anni fa, che ha plasmato il mondo intero, non solo quello occidentale, creando un ritmo di crescita, di progresso diciamo la parola giusta, mai visto nella storia dell’umanità, imponendo tasse come pure ritorsioni politiche, multe non a chi viola le regole, ma a chi viene considerato un avversario.
La storia, del resto, offre solo conferme degli effetti nefasti del protezionismo. A cominciare dalla legge Smoot-Hawley nei primi anni ’30: voleva difendere l’economia americana con dazi e tariffe sui prodotti esteri (fino al 60% su ben 20 mila merci), in tre anni le importazioni crollarono del 66% e le esportazioni del 61%, il tasso di disoccupazione passò dall’8 al 25%. Da allora gli americani giurarono ”mai più”
Volendo cercare una logica in questa follia, l’unica spiegazione sembra proprio questa e rappresenta, probabilmente, la grande differenza rispetto ad altre fasi di protezionismo. Anche se si tratta sempre di decisioni politiche dal forte contenuto elettorale, un tempo le tariffe venivano concepite come rimedi estremi per mali estremi che colpivano una intera nazione (il grande crac del 1929 o il fallimento della Chrysler negli anni ’80 che coinvolgeva le altre due big dell’auto), adesso invece sono armi economiche contro specifici, spesso singoli, nemici politici. Così le sta usando Trump contro la Cina e contro l’Unione europea considerata ormai nemica (vedremo cosa farà con Vladimir Putin passata l’eccitazione calcistica che lo ha contagiato, cioè se davvero in quelle due ore di faccia a faccia ha stretto un qualche patto più o meno scellerato). E così vengono utilizzate anche dai protezionisti di casa nostra.
Senonché tutta l’assurdità di questa recita da idioti viene alla luce non appena scatta la reazione a catena, colpo su colpo, rappresaglia contro rappresaglia. Allora, rubiamo ancora a Shakespeare i suoi versi, il “povero attore che si pavoneggia e si agita per la sua ora sul palcoscenico, poi tace” scoprendo i guai che ha provocato. Il Fondo monetario internazionale ha calcolato che il rallentamento in corso nell’economia europea e quello previsto per gli Stati Uniti verrà accentuato dalla corsa a imporre balzelli su merci e servizi stranieri. Trattati come quello firmato ieri tra Unione europea e Giappone sono antidoti importanti e segnali politici forti, ma non bastano.
Ci sarà una ricaduta anche sull’Italia: il prodotto lordo è destinato a crescere meno per qualche decimale di punto, dall’1,5 per cento dello scorso anno all’1,2 quest’anno e all’un per cento nel 2019. Sembra poco, invece è molto per un paese a basso sviluppo, che ha bisogno di recuperare quei nove punti di prodotto lordo perduti nei sette anni di vacche magre. Soprattutto rende più impervio il cammino per sostegni ai redditi e riduzioni delle imposte, i due pilastri del contratto di governo giallo-verde. Un boomerang, insomma, un altro racconto, gonfio di rumore e di furia, recitato da un folle.