La messa in mora dell’agibilità politica leghista è la prima insidiosa bomba che rotola tra le gambe di un Matteo Salvini al massimo del suo fulgore da premier de facto. In poche parole: smentendo la decisione del Riesame, la Cassazione ha appena stabilito che il partito di Salvini non ha diritto a possedere alcuna forma di liquidità fintantoché non avrà sborsato 49 milioni di euro sui quali si è appuntato il fiuto dei magistrati inquirenti per una brutta storia di malversazione risalente agli anni della gestione Bossi-Belsito. Il caso è fin troppo noto per ripercorrerlo nel dettaglio, l’attenzione si concentra ora sulle parole del ministro dell’Interno: “La Lega sarebbe il primo partito in Europa messo fuori legge con una sentenza non definitiva per eventuali errori commessi da qualcuno più di dieci anni fa con cui io non c’entro nulla… Se qualcuno dieci anni fa ha speso in maniera errata 300 mila euro, perché di questo si sta parlando, e verrà condannato in via definitiva, di quei 300 mila euro, anche se non c’entro nulla, sono personalmente disposto a farmene carico. Se questo significa attaccare politicamente un partito che sta conquistando fiducia e l’orgoglio dei cittadini italiani…”.
Vistosi chiudere dall’oggi al domani il già magro forziere leghista, Salvini ha deciso di alzare la posta in gioco interpellando il presidente della Repubblica, in quanto “garante della Costituzione e dei diritti dei cittadini”. Parole sue. E mossa intelligente, affilata, ma con una doppia lama non facile da maneggiare. In punto di Costituzione, il gesto di Salvini non fa una piega e anzi dirige il cono di luce verso la sola persona capace di addomesticare un caso altrimenti destinato a innescare un conflitto istituzionale tra politica e magistratura. Su questo punto, si noti l’atteggiamento ambiguo del partner di governo, quei Cinque stelle che per bocca di Luigi Di Maio e da ultimo del Guardasigilli Alfonso Bonafede obiettano: “Le sentenze vanno rispettate, senza evocare scenari che sembrano appartenere più alla Seconda Repubblica”. E così ci avvicianiamo al punto centrale: Sergio Mattarella è anche il capo del Consiglio superiore della magistratura, nonché un emerito professore di Diritto costituzionale proveniente dalla Suprema Corte, che non per niente è il luogo naturale nel quale confluiscono storicamente i più valenti giudici di Cassazione, tavolta proprio nella quota (un terzo) spettante alla potestà di nomina quirinalizia. Fuori dai tortuosi circoli di Palazzo: il capo dello Stato è la persona giusta al posto giusto per valutare in profondità una decisione di merito (quella della Cassazione contro la Lega) con evidenti ricadute politiche – l’impossibilità leghista di affrontare il cabotaggio quotidiano come ogni altro partito, figurarsi un’eventuale campagna elettorale… – sulle quali si è subito incistata la volontà pentastellata di non sostenere le ragioni di un alleato-concorrente di governo in manifesto vantaggio nel gradimento reso pubblico dai sondaggi d’opinione.
Mattarella dispone di solidi argomenti per imbracciare la linea dura, ma il suo raggio d’azione è abbastanza largo da contemplare un ridimensionamento del problema che non umilii nessuno: né l’indipendenza di un corpo giudiziario diviso al proprio interno intorno all’entità della pena inflitta al partito di Salvini, né l’attuale dirigenza leghista che avverte in modo bruciante il retrogusto persecutorio di una sentenza motivata da un dolo di cui non è stata causa efficiente ma si ritrova invece vittima oggettiva. Poche ma sentite parole quirinalizie, meglio se precedute da un incontro con Salvini, sarebbero sufficienti a disinnescare se non altro alcuni acerbi stati d’animo
Insomma Salvini è alla ricerca di una mediazione istituzionale? C’è da augurarselo, ma al tempo stesso il titolare del Viminale sta mettendo Mattarella di fronte a un bivio assai delicato: procedere con una moral suasion fra i togati tutta da immaginare e ponderare, magari richiamandosi alla necessità di abbassare i toni e radicarsi piuttosto nel principio di realtà? Un assist per un eventuale nuovo giudizio pro Lega da parte del Riesame; ovvero mantenere un riserbo umbratile, alimentando suo malgrado il malevolo retropensiero che il Quirinale sia indifferente alle enormi difficoltà del partito populista, meno permeabile (eufemismo) dei Cinque Stelle al benevolo tutorato dell’establishment? Va detto che Salvini, ancora ieri, ha trattenuto nei giusti limiti le proprie parole: “Io rispetto il lavoro della stragrande maggioranza dei giudici, che al 99 per cento fanno bene e obiettivamente il loro lavoro”; eppure in quel suo “ma parlerò con Mattarella” s’indovina un atteggiamento ultimativo. Quasi un “con noi o contro di noi”. Di qui l’impressione del potenziale deflagrante rappresentato dalla circostanza. Dopo aver infilato una serie di vittorie non soltanto simboliche nella controversia europea sulla gestione del dossier migratorio, Salvini e i suoi hanno occupato con sapiente sprezzatura il centro della scena pubblica, oscurando la garbata mitezza del premier Giuseppe Conte e la più cespugliosa presenza del suo vice Di Maio, alle prese con lente e gravose necessità del Lavoro e dello Sviluppo. La conseguenza è che il fronte leghista stava viaggiando spedito verso una condizione maggioritaria, avendo in dotazione l’arma sempre più carica di un’eventuale crisi di maggioranza con sbocco nelle elezioni anticipate. La Cassazione ha scaricato l’arma e l’ha trasformata in un pesante ordigno istituzionale.
Vistosi chiudere dall’oggi al domani il già magro forziere leghista, Salvini ha deciso di alzare la posta in gioco interpellando il presidente della Repubblica, in quanto “garante della Costituzione e dei diritti dei cittadini”. Parole sue. E mossa intelligente, affilata, ma con una doppia lama non facile da maneggiare
Come uscirne? Un magistrato risponderebbe che non c’è altra soluzione se non quella di accogliere la sentenza e chinare il capo. È la stessa idea promossa da un Pd altrimenti muto e confuso anzitutto su di sé. Ed è pure la tentazione, come si diceva, degli affaticati Cinque Stelle. Mattarella dispone di solidi argomenti per imbracciare la linea dura, ma il suo raggio d’azione è abbastanza largo da contemplare un ridimensionamento del problema che non umilii nessuno: né l’indipendenza di un corpo giudiziario diviso al proprio interno intorno all’entità della pena inflitta al partito di Salvini, né l’attuale dirigenza leghista che avverte in modo bruciante il retrogusto persecutorio di una sentenza motivata da un dolo di cui non è stata causa efficiente ma si ritrova invece vittima oggettiva. Poche ma sentite parole quirinalizie, meglio se precedute da un incontro con Salvini, sarebbero sufficienti a disinnescare se non altro alcuni acerbi stati d’animo.
Su tutto il ragionamento, infine, incombe il gravoso precedente berlusconiano, ovvero la trama incandescente di un conflitto ininterrotto che ha tratteggiato quella Seconda Repubblica richiamata dal ministro della Giustizia Bonafede. La storia più o meno recente si è incaricata di dimostrare l’inanità della sinistra che s’era illusa non tanto di potersi liberare da Silvio Berlusconi per vie giudiziarie, quanto di offire all’Italia un’alternativa fondata sulla subalternità della politica rispetto alla magistratura. Un difetto congenito della compagine grillina, non del giurista e politico Mattarella.