Per chi odia Marchionne: senza di lui, la Fiat sarà sempre meno italiana (e per i lavoratori saranno guai)

Il dopo Marchionne vedrà una decisa internazionalizzazione del marchio, una probabile fusione con un grande gruppo estero, per superare i mali storici della Fiat. Ma l’Italia sarà sempre meno protagonista, preparatevi

Il futuro della Fca si chiama Jeep: quando Sergio Marchionne mesi fa, ancora in buona salute, lanciò questo messaggio agli analisti forse sapeva di lasciare il timone al manager inglese che ha rilanciato e potenziato il più tipico prodotto americano, diventato globale grazie all’intuizione felice del manager dal maglioncino nero. Tuttavia la Fiat Chrysler Automobiles non è un’azienda monomarca, è un gruppo complesso troppo grande per essere gestito come una impresa di nicchia, troppo piccolo per competere davvero con i colossi dell’auto. Il paradosso che per decenni aveva tarpato le ali alla Fiat si ripresenta oggi sia pure su scala diversa.

Nel frattempo, lo stesso metro di misura è cambiato in parallelo con la trasformazione del mercato mondiale. E cambierà ancora perché le quattro ruote sono investite anch’esse dalla rivoluzione digitale. L’automobile 4.0 sarà diversa, forse elettrica (qui il punto interrogativo resta perché il futuro è in gran parte legato alla tecnologia delle batterie), forse a pilota automatico, forse auto-volante come promette Elon Musk, un altro visionario dell’industria. Non lo sappiamo, anche se questi sono gli itinerari già imboccati dai produttori giapponesi, americani, europei e cinesi, gli ultimi arrivati e forse i più aggressivi.

Il capolavoro di Marchionne è stato non solo il salvataggio e il rilancio della Fiat grazie al quale il manager è finito nella copertina della Harvard Business Review, ma l’acquisizione della Chrysler senza far pagare un centesimo alla famiglia Angelli che John Elkann sta guidando su una strada sempre più finanziaria, un po’ Rockefeller un po’ LVMH, come vedremo. La Chrysler, offerta e rifiutata quando la Fiat era il numero due in Europa testa a testa con la Volkswagen, ha segnato l’ingresso sul mercato globale, la compiuta internazionalizzazione della Fiat che l’ha indotta a mutare pelle. L’uscita dall’Italia è stata la conseguenza immediata di questo salto di qualità.

La Fiat Chrysler Automobiles non è un’azienda monomarca, è un gruppo complesso troppo grande per essere gestito come una impresa di nicchia, troppo piccolo per competere davvero con i colossi dell’auto

Marchionne è stato messo in croce per questo, anche se il manager ha saputo dare una nuova dimensione, più ridotta, ma più produttiva ed efficiente, agli stabilimenti italiani. La Fca è ancora il più grande gruppo manifatturiero in Italia e ha assunto operai quando ancora la maggior parte delle altre grandi industrie licenziavano. I suoi nemici non lo hanno mai riconosciuto, sarebbe ora che lo facessero.
Così come dovrebbero ammettere che la sfida di Marchionne al sindacato, dura, talvolta brutale, era nel giusto: non solo introduceva una organizzazione del lavoro indispensabile per la produzione dei tempi nuovi, ma segnava uno spartiacque tra l’illusione di una conflittualità permanente e il bisogno di cooperazione, di collaborazione tra lavoratori e manager, tra operai e padroni, entrambi in vesti nuove, che l’era globale richiede. “Non ho mai capito perché gli operai americani mi ringraziano per avergli salvato la pelle, mentre quelli italiani la pelle vorrebbero farmela”, si chiedeva il capo della Fiat. E nella sua osservazione falsamente ingenua era condensata un’analisi impietosa, ma profonda della crisi italiana.

Con la scomparsa di Marchionne, la filiera italiana dell’auto che ha fatto da locomotiva alla ripresa, è davvero appesa a un grande punto interrogativo. Mike Manley dell’Italia conosce poco e forse gliene importa ancor meno. Né gli interessa esercitare quel ruolo politico-sociale che Marchionne ha ereditato da Gianni Agnelli e ha esercitato a suo modo.

Gli obiettivi adesso sono due: entrare finalmente in Asia e maritarsi con un buon partito, in sostanza portare a termine le incompiute di Marchionne. L’alleanza o, come in realtà vorrebbe Elkann, la fusione con un gruppo maggiore, è resa più facile dall’addio di Marchionne. L’accordo con la General Motors è fallito perché la top manager Mary Barra non voleva essere estromessa da Super Sergio. Lo stesso è accaduto con la famiglia Peugeot: ha preferito accettare i capitali cinesi più un “aiutino” dello stato che era sempre stato orgogliosamente rifiutato per oltre un secolo, piuttosto che finire sotto il manager dal maglioncino nero. Manley non ha ancora lo status per pretendere il comando, quindi potrebbe gestire una trattativa senza creare allarmi su chi comanda.

Mike Manley dell’Italia conosce poco e forse gliene importa ancor meno. La Ferrari è stata già scorporata e in borsa vale 24 miliardi mentre tutta la Fca è a quota 26. Forse la Ferrari diventerà davvero il perno per creare quel polo del lusso che piace a Elkann

Ma una intesa di qualche genere è resa ancor più urgente dal cambiamento nelle prospettive dell’automobile: da una parte il rallentamento del ciclo economico, dall’altro gli ingenti capitali necessari per compiere il salto digitale, spingono a nuove concentrazioni. Il valore di borsa della Fca è decuplicato nell’era Marchionne e i debiti sono stati azzerati, insomma i fondamentali sono a posto e ci sono tutte le condizioni per un matrimonio con i fiocchi.

Ciò lascerà Exor come azionista di minoranza, magari non passivo, ma in ogni caso un investitore finanziario. Un altro passo avanti verso la trasformazione della galassia Agnelli. La Ferrari è stata già scorporata e in borsa vale 24 miliardi mentre tutta la Fca è a quota 26. Se finalmente vincerà un mondiale quest’anno con Sebastian Vettel, riceverà un’altra spinta al rialzo. E forse diventerà davvero il perno per creare quel polo del lusso che piace a Elkann, un po’ sul modello della LVMH di Bernard Arnault. La Ferrari è stata messa in mano a Louis Carey Camilleri, un manager che viene dalla Philip Morris e anche questo è un messaggio. La Cnh, concorrente della Catepillar, sarà guidata da una donna, Suzanne Heywood all’insegna della continuità. In cantiere c’è anche lo scorporo della Magneti Marelli che ha un ruolo chiave anche in vista dell’auto elettrica, con il quale si completa la concentrazione della Fca sul core business a quattro ruote, propedeutico anch’esso a un accordo.

Il futuro della Fca sarà un problema serio per il governo italiano che si trova tra le mani una sfida superiore alle capacità dei suoi ministri, anche dei migliori. Chissà se Luigi Di Maio avrà il tempo e la possibilità di leggere il bilancio della Fca, ben più complesso delle noterelle di Tito Boeri. Se ci è consentito un consiglio non richiesto, farebbe bene a prenderlo in mano subito, perché tra poco potrebbe trovarsi a gestire non un tavolo di crisi, ma un tavolo da poker

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