Migliorano i numeri, ma non le condizioni dei lavoratori. Crescono i posti di lavoro, ma non i salari. E la probabilità di finire disoccupati, rimanendo senza reddito, per gli italiani resta ancora molto alta. L’Employment Outlook 2018, pubblicato dall’Ocse, fa emergere le malattie croniche del mercato del lavoro italiano. Gli occupati aumentano, anche se più lentamente rispetto ad altri Paesi, spiegano dall’Ocse. Ma la crescita degli stipendi resta bassa (quasi un punto percentuale sotto il trend pre-crisi) e il livello di insicurezza non cala. I numeri, a vederli, sono tutt’altro che negativi. Quella che non migliora, però, è la qualità dell’occupazione. Il mercato del lavoro italiano è ancora tra i più “insicuri” tra i Paesi Ocse, soprattutto per giovani, anziani e madri con figli. E la povertà, tra chi è in età lavorativa, continua ad aumentare.
L’occupazione tra i 15 e i 74 anni è aumentata di 2,3 punti percentuali dal livello più basso nel 2013, tornando quasi al livello pre-crisi (51%), dice l’Ocse. E il tasso di disoccupazione in Italia è sceso, anche se rimane il terzo più alto tra i paesi dell’Ocse e 4,6 punti percentuali sopra il livello del 2008. Ma mentre negli altri Paesi i salari reali crescevano in media del +0,6%, da noi tra il quarto trimestre 2016 e il quarto trimestre del 2017 sono scesi dell’1,1 per cento. Ed ecco la spiegazione: «La stagnazione della produttività e una percentuale significativa di lavoratori a basso reddito con contratti temporanei e/o part-time involontario contribuiscono a spiegare perché i salari reali in Italia scendano invece di risalire con la ripresa economica».
Non sorprende che, visto l’ancora elevato tasso di disoccupazione e l’incidenza di contratti a termine (tra i nuovi rapporti di lavoro sono il 95%), il livello d’insicurezza nel mercato del lavoro, e cioè la probabilità di perdere il posto e restare senza reddito, sia il quarto più alto tra i paesi Ocse. Peggio di noi fanno solo Grecia, Spagna e Turchia. E anche lo stress lavorativo supera la media Ocse di oltre due punti.
E a essere penalizzati sono soprattutto i gruppi svantaggiati: madri con figli, giovani, lavoratori anziani, stranieri e persone con disabilità parziali. Il divario occupazionale italiano resta il quarto più alto tra i Paesi Ocse. E anche il divario di genere sui redditi rimane superiore alla media.
Ogni anno, tra l’1% e il 7% della forza lavoro dei paesi Ocse perde il posto di lavoro per ragioni economiche. In alcuni Paesi questi lavoratori riescono a trovare un nuovo posto di lavoro rapidamente, in Italia no. «La creazione dell’Anpal è stata un passo importante ma l’Italia deve continuare a investire nelle politiche attive», dicono dall’Ocse. «La priorità è assicurare uno stretto coordinamento con le regioni. Fornire ai centri per l’impiego personale adeguato e sviluppare strumenti di profilazione di chi cerca un lavoro è altrettanto importante per gestire un alto numero di persone in cerca di lavoro». E ancora: «È, inoltre, necessario sviluppare una strategia d’intervento precoce per favorire il rapido reinserimento lavorativo. Chi perde il lavoro deve potersi registrare al centro per l’impiego appena ricevuta la notifica di licenziamento, anche prima della fine del contratto. Questa strategia sarà di più facile attuazione se l’erogazione del sussidio sarà legata all’avvenuta registrazione e a una ricerca attiva di un nuovo posto di lavoro».
I sussidi di disoccupazione restano uno degli strumenti principali per favorire il reinserimento lavorativo dei disoccupati. Ma nella maggior parte dei Paesi, meno di un disoccupato su tre li riceve. In Italia questo numero scende: nel 2016 meno di un disoccupato su dieci riceveva il sussidio di disoccupazione, una delle percentuali più basse tra i paesi Ue. È questo il risultato della malsana combinazione tra l’alta percentuale di disoccupati di lungo periodo (oltre i 12 mesi) e la bassa durata massima del sussidio italiano.