Istituito nel 1978 dall’allora ministro Tina Anselmi con l’obiettivo di curare, prevenire ed educare i cittadini, il nostro sistema sanitario nazionale è stato a lungo uno dei fiori all’occhiello del welfare italiano. A 40 anni dalla sua creazione, però, molte cose sono cambiate. Non tanto per le bufale (o presunte tali) riguardo cartoni usati al posto dei gessi che in questi giorni d’agosto hanno agitato l’opinione pubblica.
Un dato meglio di qualunque altro spiega l’infelice decrescita del settore: la spesa sanitaria in rapporto al Pil, che nel 2018 si attesta al 6,5%, ovvero la soglia limite indicata dall’Oms al di sotto della quale si riduce l’aspettativa di vita, l’accesso alle cure e la qualità dell’assistenza. Una cifra che ci pone al 12esimo posto tra le nazioni europee. Un’emergenza che continuerà nel 2019 e nel 2020, quando arriverà al 6,3%. Una percentuale che, fino al 2010, ha viaggiato stabilmente sopra il 7%.
I numeri riguardo le spese private, soprattutto quelle sostenute direttamente dai pazienti senza l’aiuto di assicurazioni o fondi, stridono in particolar modo con i principi del Ssn. Secondo il 3° rapporto Gimbe, la spesa sanitaria nel 2016 ammonta a più di 157 miliardi, di cui quasi 40 miliardi a carico delle famiglie. Sul totale, quasi il 30% della spesa sanitaria è privata. Un trend per certi versi inevitabile anche a causa dell’introduzione di innovazioni tecnologiche e farmacologiche. Fattori che, tuttavia, non sono sufficienti a spiegare un cambiamento preoccupante, che pesa sempre più sui portafogli dei cittadini.
Un dato meglio di qualunque altro spiega l’infelice decrescita del settore: la spesa sanitaria in rapporto al Pil, che nel 2018 si attesta al 6,5%, ovvero la soglia limite indicata dall’Oms al di sotto della quale si riduce l’aspettativa di vita, l’accesso alle cure e la qualità dell’assistenza. Una cifra che ci pone al 12esimo posto tra le nazioni europee. Un’emergenza che continuerà nel 2019 e nel 2020, quando arriverà al 6,3%. Una percentuale che, fino al 2010, ha viaggiato stabilmente sopra il 7%
Un altro problema dell’attuale sistema sanitario – sembra un paradosso ma non lo è – la lunga aspettativa di vita (82,6 anni) di cui gli italiani godono. Un dato che ci fa gioire e ci porta ai vertici di alcune classifiche, come quella pubblicata qualche anno fa da Bloomberg il cui principale criterio era la relazione tra l’aspettativa di vita e le spese sanitarie sostenute. Ma se si prende in esame un criterio più accurato, ovvero “l’aspettativa di vita in buona salute”, crolliamo. Un po’ come ha cercato di spiegare Piero Angela qualche tempo fa, “Vivere fino a 120 anni è un incubo, non un progresso. A me piacerebbe arrivare a 200, ma in sella a una motocicletta e con una bionda sul sedile posteriore”. Peccato che siamo ancora lontani da un traguardo simile.
Quel che è reale, invece, è un esercito di anziani non autosufficienti a carico di famiglie che hanno sempre più difficoltà a curarli e assisterli. Secondo il Cergas, centro studi dell’Università Bocconi che ogni anno analizza lo stato di salute del nostro sistema sanitario, sarebbero 2,8 milioni e saliranno a 3,5 milioni in 10 anni.
E i giovani medici dove sono? Non dovrebbero essere loro a prendersi cura degli anziani? Certo, la natalità nell’Italia post-crisi è sempre più bassa, ma i 20-30enni che hanno avuto la possibilità di studiare e diventare buoni medici non mancano. E difatti è così, peccato che a causa delle condizioni di lavoro sempre peggiori e del blocco del turnover sono sempre di più quelli che decidono di migrare all’estero. Più della metà dei medici che lavorano negli ospedali italiani, infatti, ha più di 55 anni. Come denunciato all’Espresso da Andrea Filippi della Cgil medici, le condizioni per i nuovi assunti sono iniziate a peggiorare nel 2001 con i primi contratti a termine. Oggi ci sarebbero 12mila specialisti con contratti annuale per una busta paga base di circa 80 euro al giorno. Tempo medio per avere un contratto stabile: 15 anni. E non è tutto: perché ultimamente sarebbero iniziate a sbucare cooperative che, in subappalto, gestiscono interi reparti di ospedali pubblici. Una pratica di assunzione diventata routine a causa della cronica assenza di personale.
Una situazione inquietante che, tuttavia, non è uguale dappertutto. Secondo i dati contenuti nel Rapporto di Coordinamento di Finanza Pubblica 2018 della Corte dei Conti, ci sono regioni come Calabria e Campania non in grado di garantire i Lea, cioè i livelli essenziali di assistenza, servizi e prestazioni che devono essere assicurati su tutto il territorio. La regione migliore? Il Veneto
E per gli infermieri, secondo quanto riportato dal rapporto Cergas, la situazione è ancora peggiore. Se infatti il numero di medici è in linea con la media Ue, ci sono appena 5,4 infermieri ogni mille abitanti contro i 9 della media Ocse. La conseguenza? Turni massacranti – nonostante le paghe rimangano basse – e inevitabile crollo della produttività.
Una situazione inquietante che, tuttavia, non è uguale dappertutto. Secondo i dati contenuti nel Rapporto di Coordinamento di Finanza Pubblica 2018 della Corte dei Conti, ci sono regioni come Calabria e Campania non in grado di garantire i Lea, cioè i livelli essenziali di assistenza, servizi e prestazioni che devono essere assicurati su tutto il territorio. La regione migliore? Il Veneto. L’eterno abisso tra Nord e Sud viene confermato anche dal rapporto OsservaSalute 2017 dell’Università Cattolica di Milano che registra la spesa sanitaria pro capite per regione. Numeri da cui emerge che la Campania è il fanalino di coda con 1.729 euro spesi per cittadino. A pochissima distanza Sicilia e Calabria. Una differenza di circa 500 euro con la Provincia autonoma di Bolzano che spende per la sanità 2.285 euro a cittadino.