Fine del finanziamento pubblico ai partiti: aumentano le spese e diminuisce la trasparenza

Openpolis ha analizzato i bilanci dei principali partiti italiani. Le donazioni private sono molto basse. E con l’abolizione dei rimborsi elettorali, crescono le spese dei gruppi parlamentari, mentre i principali finanziatori sono gli stessi eletti. Emergono nuovi donatori tutt’altro che trasparenti

L’abolizione dei finanziamenti pubblici non è servita a portare ordine e trasparenza nei conti dei partiti italiani. Mentre i politici stanno per andare in vacanza, Openpolis ha analizzato i bilanci dei partiti dal 2013 al 2017. Dopo l’entrata in vigore delle riforme che via via hanno eliminato definitivamente i rimborsi elettorali, quello che viene fuori è che in quattro anni le entrate sono diminuite del 62 per cento. Ma le carte si sono solo mischiate. I contributi per i gruppi parlamentari non sono spariti affatto, e anzi alcune voci di spesa sono aumentate. Mentre i partiti tagliavano, i gruppi spendevano. E tra crisi e disaffezione alla politica, anche le donazioni da aziende e privati si contano ormai col contagocce. Tanto che, a conti fatti, il risultato è che i maggiori finanziatori dei partiti sono gli stessi eletti, che versano quote delle loro indennità come contributo al partito. Forse per questo, da destra a sinistra, nessuno ha intenzione di tagliarle.

La situazione attuale è questa: dopo che nel 2017 i rimborsi elettorali sono stati aboliti del tutto, le entrate possibili per i partiti sono il 2 per mille e le donazioni dei privati, che godono di incentivi fiscali.

I contribuenti possono decidere di dare lo 0,2% dell’Irpef ai partiti anziché allo Stato. Una differenza importante rispetto al passato. I rimborsi elettorali valevano più di 180 milioni di euro l’anno, poi ridotti a 91 dal governo Monti, e venivano erogati sulla base dei voti ricevuti dalla lista nelle elezioni. Quindi erano “automatici”. La donazione del due per mille invece è volontaria. E le somme calano, eccome. Nell’anno “migliore”, il 2013, la raccolta tra i contribuenti ha garantito solo 15,3 milioni di euro di entrate. Molto molto meno di quanto garantivano i rimborsi elettorali.

Ma le casse dei partiti sono più vuote non solo per il taglio al finanziamento pubblico. A calare a picco sono state anche le donazioni private, nonostante uno degli obiettivi delle varie leggi fosse proprio quello di incoraggiarle. Il decreto Letta, non a caso, aveva previsto una detrazione fiscale del 26% su quanto donato alle forze politiche iscritte nel registro dei partiti, per cifre comprese tra 30 e 30mila euro. Di conseguenza, la legge aveva quantificato entrate minori pari a 27,4 milioni nel 2015 e 15,65 milioni nel 2016. L’aspettativa era che le donazioni private sarebbero state alte. Ma non è andata così.

Buona parte delle donazioni da persone fisiche non arriva da comuni cittadini, ma sono versate da parlamentari ed eletti al partito di appartenenza

Il 2013 è stato l’anno record per le donazioni private, con oltre 40 milioni di euro di donazioni complessive. Era l’anno delle elezioni politiche: da Openpolis ipotizzano quindi che i partiti avessero attivato meccanismi di raccolta fondi più efficaci. E in più era l’ultimo anno senza limiti al finanziamento privato: dal 2014 il decreto Letta ha introdotto poi un tetto di 100mila euro annui a persona o azienda. Nel 2013 solo Silvio Berlusconi versò a Forza Italia 15 milioni di euro, operazione che non sarebbe stata possibile l’anno successivo.

Negli anni successivi le entrate sono calate a picco, in particolare le donazioni da parte delle aziende. Per le persone fisiche, invece, dal 2017 per la prima volta si registra una inversione di tendenza. E bisognerà capire se questo trend si confermerà nei bilanci del 2018, vista la necessità di raccogliere i fondi per elezioni del 4 marzo.

Ma, fanno notare da Openpolis, questo dato potrebbe essere alterato dal fatto che buona parte delle donazioni da persone fisiche non arriva da comuni cittadini, ma sono versate da parlamentari ed eletti al partito di appartenenza. Sono le cosiddette quote di indennità versate come contributo al partito. Il contributo del parlamentare è calcolato rispetto a un’indennità erogata dallo Stato o dalla Regione. «Non è quindi irragionevole ipotizzare che indennità e rimborsi vengano mantenuti all’attuale livello anche allo scopo di finanziare partiti e movimenti», scrivono da Openpolis. «A maggior ragione in tempi di contrazione delle entrate, il contributo di parlamentari e rappresentanti delle istituzioni diventa strategico per gli equilibri di bilancio». Solo per Forza Italia, nel 2017 le contribuzioni dei gruppi parlamentari sono aumentate del 76%, quelle dei consiglieri regionali sono state sette volte di più. I Cinque Stelle hanno scelto di far versare ai propri parlamentari 300 euro al mese nelle casse di Rousseau: a conti fatti, in cinque anni di legislatura, si arriverà a 5,9 milioni di euro.

«Questo meccanismo di finanziamento pubblico però rischia di generare delle pesanti distorsioni nella competizione politica. Favorisce a dismisura le forze che hanno già una ampia presenza nelle istituzioni, mentre penalizza quelle con meno eletti», è il commento di Openpolis. E lo stesso meccanismo si ripete con i finanziamenti ai gruppi parlamentari, erogato in parte in quota fissa e in parte in proporzione al numero dei componenti del gruppo.

Con la fine dei rimborsi elettorali, i gruppi parlamentari hanno acquisito nuova centralità a discapito dei partiti politici

Quello che è successo in questi anni, è che mentre il finanziamento pubblico ai partiti veniva ridotto, quello ai gruppi parlamentari è rimasto stabile. I due rami del Parlamento versano ai gruppi 32 milioni di euro alla Camera e 21 milioni di euro al Senato: 53 milioni l’anno. Con la fine dei rimborsi elettorali, queste cifre hanno dato una nuova centralità ai gruppi parlamentari a discapito dei partiti politici.

Per tutte le maggiori forze politiche, tranne che per la Lega Nord, il finanziamento pubblico incassato dai gruppi è stato superiore a quello ricevuto dai rispettivi partiti. E se tra 2013 e 2017 i principali partiti hanno ridotto le loro spese del 75%, passando da 129 a 31 milioni di euro, quelle dei gruppi sono cresciute. Una delle voci di spesa più importanti tra quelle tagliate dai partiti è stata quella per il personale, più che dimezzata in cinque anni. La spesa per il personale dei gruppi invece oggi è quattro volte quella dei partiti. E anche le spese in comunicazione hanno avuto una impennata: mentre i partiti riducevano la loro esposizione, i gruppi hanno aumentato le spese per la comunicazione da 2,9 a 5,4 milioni di euro tra 2014 e 2016.

E senza finanziamenti pubblici, oltre ai gruppi si fa strada una pluralità di attori, tra associazioni, fondazioni, singole personalità politiche e articolazioni locali dei partiti, che possono raccogliere finanziamenti privati (e in alcuni casi anche pubblici), con obblighi di trasparenza diversi da quelli dei partiti. Con buona pace della tanto agognata trasparenza nei finanziamenti della politica.

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