Perché i rimpatri sono una missione impossibile (e regolarizzare i clandestini è l’unica soluzione)

Nel 2017 i rimpatri dall’Italia sono stati 7.045 su circa 500mila irregolari stimati nel nostro Paese. La Germania, nello stesso anno, ne ha rimpatriati 47.240. L’Italia continua a puntare sui rimpatri coattivi, ma non abbiamo i mezzi per farlo. E soprattutto, ci costerebbero fino a 4 miliardi

Dopo i porti chiusi, la prossima mossa del governo gialloverde sarà quella di aprire gli aeroporti. O almeno questo è il piano del vicepremier Matteo Salvini, che ora punta ad accelerare i rimpatri degli immigrati irregolari. I migranti economici saranno riportati subito a casa, ha promesso. Il suo “decreto sicurezza”, in risposta a quello “dignità”, dovrebbe essere annunciato a Ferragosto, a San Luca, Reggio Calabria, dove si terrà il prossimo Comitato per l’ordine e la sicurezza. L’idea di Salvini è quella di rimpatriare nei Paesi di provenienza chi non ha diritto all’accoglienza umanitaria, tramite voli charter o militari. Tutto in pochissimi giorni. Ma sarà più facile a dirsi in un comizio, che a farsi. E per capirlo basta guardare come il sistema non ha funzionato finora.

A cominciare dai numeri. Nel 2017 i rimpatri dall’Italia sono stati 7.045 su circa 500mila irregolari stimati nel nostro Paese. La Germania, nello stesso anno, ne ha rimpatriati 47.240 (dati Eurostat). Tra il 2013 e il 2017, secondo i calcoli dell’Ispi, Roma è riuscita a rimpatriare solo il 20% dei migranti a cui è stato intimato di lasciare il nostro territorio, Berlino il 78%. Il nostro Paese, nonostante gli sbarchi, è solo settimo in Europa per numero di espulsioni portate a termine.

«Le espulsioni in Italia non hanno mai funzionato, né con la la legge Martelli, né con la Turco-Napolitano, né con la Bossi-Fini, né con le modifiche che si sono succedute», spiega Guido Savio, avvocato membro dell’Asgi, Associazione studi giuridici sull’immigrazione. «Per legge, tutte le espulsioni dovrebbero essere immediatamente esecutive, ma è impossibile prendere una persona per strada, magari senza documenti, e rispedirla subito nel proprio Paese». Bisogna eseguire l’identificazione, stabilire la nazionalità e prendere accordi con il Paese d’origine per la riammissione, altrimenti si rischia di fare avanti e indietro in aereo. Ed è qui che la nostra burocrazia si inceppa. «Il sistema amministrativo e di polizia tedesco funziona, il nostro no», dice Savio.

Nel 2017 i rimpatri dall’Italia sono stati 7.045 su circa 500mila irregolari stimati nel nostro Paese. La Germania, nello stesso anno, ne ha rimpatriati 47.240. Il nostro Paese, nonostante gli sbarchi, è solo settimo in Europa per numero di espulsioni portate a termine.​

Poiché l’espulsione immediata non è possibile, in Italia è previsto il fermo dell’immigrato in quelli che oggi si chiamano Centri di permanenza per i rimpatri, che altro non sono che gli ex Cie (Centri identificazione ed espulsione) della Bossi-Fini, prima ancora chiamati Cpt (Centri di permanenza temporanea): luoghi di detenzione amministrativa. La logica è: ti trattengo affinché non scappi per il tempo necessario per dare esecuzione al provvedimento di espulsione. Ma la capienza dei centri non è mai bastata a contenere tutti i migranti da espellere. Prima della riforma Minniti-Orlando del 2017, i Cie erano 13, con 1.900 posti disponibili. Oggi i Cpr sono cinque con 538 posti in totale (Roma, Bari, Brindisi, Torino e Potenza).

«Ecco che allora il legislatore ha inventato un’altra soluzione che dovrebbe essere l’eccezione, ma che in realtà è la regola: se non ti posso portare subito nel tuo Paese, se non c’è posto in un centro, il questore ordina allo straniero di allontanarsi entro sette giorni con mezzi propri», spiega Savio. Cosa che non fa nessuno. «Se non te ne vai, scatta il reato di clandestinità, di competenza del giudice di pace, e vieni punito con pene pecuniarie, che nessuno paga. La prossima volta che ti fermano? Ti danno un altro decreto di espulsione», dice l’avvocato. E così si va avanti anche per otto-dieci anni.

È un sistema che non ha mai funzionato. Anzitutto perché i numeri degli espulsi sulla carta sono tanti. Nel nostro Paese esistono fino a 18 tipologie diverse di espulsione, da quelle giudiziarie a quelle per svuotare le carceri, dalle irregolarità nel permesso di soggiorno fino a quelle per lavoratori autonomi (ma non subordinati!) che vendono merce contraffatta. «Un sistema che fa solo gonfiare il numero delle espulsioni che non si riescono a eseguire. Anziché fare 50-70mila espulsioni l’anno, basterebbe espellere in maniera più razionale e darne davvero esecuzione», dice Savio.

Un esempio: molti immigrati escono dal carcere e prima di essere espulsi passano comunque dai centri per i rimpatri, perché nel periodo di detenzione il ministero dell’Interno e il ministero della Giustizia non riescono a lavorare insieme per identificare lo straniero e preparargli un volo nel giorno della scarcerazione. La legge lo prevede, ma non avviene. E quindi, spiega Savio, «una persona che è stata in carcere magari per sei mesi sta un altro mese in un centro per il rimpatrio, perché deve essere identificato: lui si fa un mese di detenzione in più, e lo Stato spende altri soldi per mantenerlo».

Molti immigrati escono dal carcere e prima di essere espulsi passano comunque dai centri per i rimpatri, perché nel periodo di detenzione il ministero dell’Interno e il ministero della Giustizia non riescono a lavorare insieme per identificare lo straniero e preparargli un volo nel giorno della scarcerazione

Altro problema è l’applicazione “all’italiana” della direttiva europea sui rimpatri del 2008 (recepita nel 2011), che prevede di garantire la revoca del divieto di ingresso in Europa al migrante che torna volontariamente nel proprio Paese entro un numero di giorni prefissato. Questo è quello che è scritto sulla carta, ma in Italia questo incentivo di fatto non viene applicato. La direttiva europea prevede che in linea generale tutte espulsioni debbano essere effettuate con la concessione di un termine per la partenza volontaria, tranne nei casi eccezionali. E cioè se si ritiene che ci sia pericolo di fuga o nel caso in cui l’espulsione avvenga in conseguenza di una sentenza penale di condanna. «Ma il nostro legislatore», spiega Savio, «nel recepire la direttiva europea ha stabilito un perimetro talmente ampio di rischio di fuga che il 99% degli stranieri da espellere sono considerati a rischio, e quindi la partenza volontaria di fatto non viene quasi mai applicata».

Non solo: la partenza volontaria deve essere richiesta. La legge prevede che le questure informino l’interessato di questa facoltà tramite dei moduli multilingue. «Ma i nostri modelli più che informativi sono disinformativi. Si chiede semplicemente: “Vuoi tornare a casa tua?”», spiega savio. «L’immigrato che è arrivato fin qui risponde “Certo che no”. In queste schede non si dice che hai due alternative: o ti porto io con la forza col rischio che ti tengo trattenuto fino a tre mesi, oppure te ne vai con le tue gambe. E che se te ne vai con le tue gambe entro un tot di giorni, potrai ritornare un domani. Se l’informazione fosse corretta, le persone accetterebbero di buon grado e ci sarebbe un incremento di domande di partenze volontarie». Ma il legislatore ha ritenuto che non fosse affidabile la partenza volontaria e fosse preferibile fare il muso duro con l’espulsione coattiva. «Peccato che i nostri mezzi non ci consentono di espellere coattivamente le persone in modo veloce, così come fa la Germania».

Uno dei problemi riguarda le nazionalità dei migranti che arrivano sulle nostre coste. Nel 2017, l’Italia ha emesso decreti di espulsione soprattutto nei confronti di persone con nazionalità africana (49% Nordafrica, 18% Africa subsahariana). Ma sono pochi gli accordi di riammissione tra il nostro Paese e i Paesi africani. E, anche laddove questi esistono come per l’Egitto o la Tunisia, la loro applicazione da parte dei governi è discontinua. Alcuni Paesi collaborano, altri no. E la collaborazione va premiata. O meglio, pagata.

Ma il legislatore ha ritenuto che non fosse affidabile la partenza volontaria e fosse preferibile fare il muso duro con l’espulsione coattiva. Peccato che i nostri mezzi non ci consentono di espellere coattivamente le persone in modo veloce, così come fa la Germania

Il governo ora starebbe valutando anche la possibilità di individuare uno Stato africano disponibile ad allestire centri di accoglienza, finanziati dall’Italia o dall’Unione europea, dove smistare i migranti da espellere e rimpatriare. Certo è che bisognerebbe mettere mano alle casse dello Stato. Forse non a caso, Salvini ha già annunciato un piano d’aiuti da 1 miliardo per Marocco, Algeria e Tunisia.

Senza dimenticare che i rimpatri coatti, come quelli che intende decuplicare Salvini, costano. E non poco. Oltre al costo del volo, c’è anche quello del personale di scorta e dei medici. Basta guardare uno dei documenti forniti dal Garante dei detenuti, che monitora lo svolgimento di questi viaggi di ritorno. Nel novembre 2017, per rimpatriare 36 tunisini, sono stati impiegati 90 agenti della Polizia di Stato, più un medico e un infermiere (sempre della Polizia) che hanno garantito il presidio sanitario fino in Tunisia. All’aeroporto di Palermo, poi, era presente anche un ulteriore team sanitario a supporto della squadra incaricata della missione internazionale (ma neanche un mediatore culturale).

Secondo una stima di Open Migration sui dati forniti da Frontex, che ha analizzato il caso di un gruppo di nigeriani respinti, un rimpatrio può arrivare a costare anche 8.000 euro a migrante. Facendo due calcoli, per 500mila irregolari, servirebbero circa 4 miliardi di euro. Ora, se è vero che possiamo investire risorse economiche per espellere i pochi soggetti pericolosi, lo stesso non può essere fatto per una badante a cui è scaduto il permesso di soggiorno o un ambulante che vendeva una Vuitton falsa. «Così si mette sullo stesso piano un rapinatore con un lavoratore sudamericano incensurato che è semplicemente in una posizione di irregolarità amministrativa?», dice Savio. «Servirebbe invece un decreto flussi. La sanatoria più grande era stata fatta ai tempi della Bossi-Fini, con oltre 600mila migranti regolarizzati. Ma da anni ormai non si fa più, se non per manodopera altamente specializzata. È ovvio che se non posso entrare regolarmente, cercherò di farlo in altro modo. Se ci fossero canali ingresso legali, l’irregolarità si ridurrebbe. E anche il lavoro delle Commissioni territoriali, visto che ormai per entrare tutti chiedono l’asilo politico, anche se non ne avrebbero bisogno».

Insomma, a conti fatti, la soluzione, più economica e razionale, per Salvini sarebbe quella di regolarizzare i migranti e aprire canali di ingresso legale. Ma il consenso elettorale chiede altro. E per scelta politica si continuerà a dire che c’è un’invasione di stranieri che vanno espulsi. Ma che, anche stavolta, non riusciremo a espellere.

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