Pangea è un quotidiano culturale on line. Pangea ha l’ambizione di portare nella cultura italiana (notoriamente provinciale ma storicamente avventuriera) i grandi temi e i grandi autori della cultura internazionale. Con l’ansia dei corsari e degli astronomi, Pangea mostra le meraviglie del nostro Paese e il meglio del resto del mondo. La rivista, che propone contributi giornalieri, è qui: pangea.news
L’idea è quella di un battito di ciglia che produce un uragano, di una parola scombinata per verità. Insomma, di una somma mistificazione. A un certo punto, il più grande scrittore del suo tempo – e probabilmente di ogni tempo – entrò in una crisi irreversibile. Appena terminato il romanzo capitale, Anna Karenina, Lev Tolstoj precipita. Avverte la nullità di ogni cosa, l’inconsistenza della fama, l’inutilità dell’arte, la fragorosa fragilità di ogni rapporto umano. Scrive Confessione, e sconfessa tutto, “non capisce nulla di sé, o ne capisce troppo?” (Igor Sibaldi). Il grande scrittore s’infiamma e penetra la conversione, radicale, autentico fiore fiammante del proprio ego.
L’ultimo adempimento di Tolstoj è diventare maestro di vita. Smette i panni del nobile, fonda scuole per i figli dei contadini, lavora i campi, rifiuta la proprietà privata (nel 1891 “comunica la sua decisione di rinunciare definitivamente ad ogni proprietà, e impone a mogli e figli di spartirsi tutto tra loro come se lui non esistesse più”), rifiuta i frutti economici della sua attività da scrittore (“rinuncia ai diritti d’autore sulle opere posteriori al 1881”: per una panoramica biografica, Album Tolstoj, a cura di Igor Sibaldi, Mondadori 1994), destinandoli ai poveri del mondo. Tolstoj è uno scrittore radicale, e le sue scelte determinano la sua scrittura, che oscilla tra fiabe devote per i figli degli sfortunati (il “Ciclo di lettura per i bambini”) e racconti micidiali, che indagano inquietudini dilanianti (La morte di Ivan Il’ic, Le memorie di un pazzo, Padre Sergij, Sonata a Kreutzer, Il diavolo). Che paradosso: proprio questi testi, scossi dal dubbio e dall’oppressione del nulla, che scavano nella grande verità – come può un uomo insegnare la vita ad altri uomini? – sono gli esiti più alti della scrittura di Tolstoj.
Tolstoj – ormai in competizione con il mondo, in lotta con Dio – compie una sua personale esegesi del Vangelo, che si focalizza sul “Discorso della montagna”, criticando il lusso dei preti ortodossi. Il 24 febbraio del 1901 il Sinodo lo scomunica, “Scrittore di fama mondiale, russo di nascita, ortodosso per battesimo ed educazione, il conte Tolstoj, vittima del suo spirito d’orgoglio, si è levato contro Dio, contro il Cristo, contro il Suo santo retaggio”. Ormai, Tolstoj è solo contro tutti: il militarismo dello zar, l’ipocrisia della Chiesa; Tolstoj è contro ogni istituzione che limiti l’emergere dell’umano.
Lo sforzo pubblicistico di Tolstoj, ormai guru dei sovversivi – rivoluzionari coi fiori – di mezzo mondo, è totale: lo scrittore capisce che “gli uomini hanno bisogno di drogarsi” perché “l’umanità del nostro tempo è come rimasta impigliata in qualcosa”, è preda della frustrazione; chiede allo zar di smettere la coercizione militare, di “eliminare tutte le barriere che si oppongono alla cultura, all’istruzione e all’insegnamento”, di inaugurare la “libertà religiosa”; battaglia per l’obiezione di coscienza (nel Promemoria del soldato è netto: “Nella Legge di Mosè è detto chiaramente, ‘non uccidere’, senza alcuna clausola su chi si possa e chi non si possa uccidere”) e per porre termine alla pena di morte, opta per il cibo vegetariano. Tra il 1909 e il 1910 il giovane Gandhi si professa ‘tolstojano’: da Tolstoj, dice, ha imparato l’arte della non-violenza, “io spero che tutti gli indiani accoglieranno di buon grado le parole di Tolstoj e gli permetteranno di guidarli”, scrive sull’Indian Opinion. Nel 1910, vicino a Johannesburg, Gandhi apre una ‘Tolstoy Farm’, con l’intento di realizzare i buoni propositi del grande scrittore.
E qui comincia un’altra storia, quella del “tolstojsmo”, che sfugge al suo padrone, Tolstoj, anzi, gli si ritorce contro. Intorno alla fine dell’Ottocento, più per merito di Vladimir Certkov, scaltro factotum di Tolstoj, sorgono ‘comuni’ tolstojane un po’ dappertutto, dagli Stati Uniti all’India. Le regole di fondo sono vaghe e mal definite (sintetizzate così: Ama i tuoi nemici; Non ti arrabbiare; Non combattere il male con il male, ma ricambia il male con il bene; Nessuna lussuria; Nessun giuramento) e le fattorie nate sotto l’impeto di Tolstoj, quasi subito, si confondono con analoghe esperienze socialiste o anarcoidi. In fondo, Lev Tolstoj è sempre stato un uomo in crisi, un uomo di mondo, muore, come si sa, in fuga, fuggendo dai tormenti familiari, da se stesso. Il 10 maggio del 1906, sul suo diario, annota, “ho voglia di scappare, di scomparire per sempre”.
Vladimir Certkov era certamente un profittatore, un tanto volpe, un tot Giuda. Eppure, Tolstoj, lo vuole accanto a sé – gli è più caro della moglie. Tolstoj ha bisogno di avere come ‘spalla’ un vile e come moglie una avida mangiasoldi, una vampira. Per capire il bene – effimera fola – ha bisogno di avvicinarsi la banalità del male. Pure questo è segno della sua grandezza. Il genio di Tolstoj è proprio qui: pur aiutando gli altri, ha continuato a tormentare se stesso. Che alcuni esseri umani varassero comunità, in giro per il mondo, sotto l’egida del suo nome, per vivere un cristianesimo più autentico, più che altro, era una circostanza che allarmava Tolstoj, che non voleva essere maestro di alcuno – non lo era neanche di se stesso. I discepoli erano un fastidio malsopportato dalla foga nichilista di Tolstoj.
Lo scrittore è tale perché è devoto alle idee degli altri e alle proprie storie – in sé, non ha particolari idee da propagare nel mondo. Certo, se ti chiami Tolstoj o se sei Dostoevskij ogni eccezione è lecita. Nella contraddizione tra ciò che vorrebbe essere – il nuovo Cristo – e ciò che è – semplicemente, un grande scrittore – si consuma l’esistenza inimitabile del conte Lev. Predicava bene, Lev Tolstoj, nei proclami pubblici; poi distruggeva ciò che aveva predicato nei racconti secretati nel cassetto. In qualche modo, infine, il Tolstoj scrittore cercò di uccidere il Tolstoj predicatore: il conte Lev dava al nulla il nome di Dio.