Dai giochi di morte alla letteratura: perché non ci libereremo mai dalle emulazioni pericolose

Il nostro libero arbitrio è molto meno libero di quanto crediamo. Il ”desiderio mimetico” fa sì che tutte le storie con cui veniamo in contatto ci influenzino. Liberarsene? Quasi impossibile

Avete presente quelle avvertenze in sovraimpressione prima di certi programmi sul pericolo emulazione, stile “ATTENZIONE bambini non fatelo a casa”?

D’istinto, un po’ di sano darwinismo prevale nelle menti dei più cinici di noi, e in effetti è difficile non pensare che se vedendo Superman volare decidi di imitarlo, proprio tutto questo gran danno levandoti dalla faccia della terra alla terra non fai (e quanta, quanta soddisfazione ci danno ogni anno i Darwin Awords!!!). Ma se le narrazioni, grandi e piccole, riassumono e influenzano la storia dell’umanità quasi fin dai suoi albori, non si può negare che ai giorni nostri lo storytelling mieta vittime come se non ci fosse un domani. L’influenza che le storie hanno sulle nostre vite è un tema troppo delicato per lasciarlo alle mani di censori e manichei. Come scrive Luca Mastrantonio nell’introduzione al suo Emulazioni pericolose (Einaudi), “serve una mente libera da pregiudizi e autoindulgenze per affrontare serenamente i pericoli dell’emulazione: gli effetti collaterali della fiction nella sfera pubblica e privata, l’abuso di storytelling in politica e nel giornalismo, l’irresponsabilità dei media che fanno sensazionalismo spacciato per sensibilizzazione, la curiosità conformista che agevola la diffusione di contenuti osceni, il bisogno narcisistico di essere ammirati”.

Viviamo e raccontiamo noi stessi attraverso le storie di cui ci nutriamo: il nostro libero arbitrio è meno libero di quel che ci piace pensare. Le nostre storie – in primis le serie tv, che da un paio di decenni occupano un posto centrale nel privilegiato immaginario occidentale – orientano in maniera determinante le nostre scelte materiali e spirituali, specie in ambito sentimentale e professionale. Ammettere la nostra dipendenza dalle narrazioni, come per affrontare qualsiasi altra dipendenza, è il primo passo per emanciparsene, perché se la libertà assoluta è un’illusione, la scelta da chi e cosa farsi condizionare è potenzialmente illimitata, e la coscienza della nostra libertà condizionata è il primo passo per l’autodeterminazione narrativa, quindi per una libertà vera e non solo immaginaria

Il nostro libero arbitrio è meno libero di quel che ci piace pensare. Le nostre storie – in primis le serie tv, che da un paio di decenni occupano un posto centrale nel privilegiato immaginario occidentale – orientano in maniera determinante le nostre scelte materiali e spirituali

Gli esempi di celebri emulazioni pericolose, nel libro di Mastrantonio, sono numerosi e raccontati con agilità: dai dolori del giovane Werther “portatore sano della febbre di suicidi che nel Settecento sconvolse l’Europa letteraria e l’autore stesso” (anni dopo sarebbe stata la volta di Marylin e Curt Cobain), alle “cronache giornalistiche avvincenti come quelle che narravano le imprese efferate di Jack lo Squartatore”, generando copycat, passando per Arancia meccanica (1971) di Stanley Kubrick, “critica alla violenza di Stato che divenne modello stilistico di violenza per molti teppisti”, Natural born killers (1994) di Oliver Stone (con John Grisham nel ruolo di grillo parlante e animatore di battaglie legali per incolpare il regista di alcuni omicidi compiuti da suoi fan psicolabili, poi fortunatamente perse), a Fight Club, “che ispirò decine di club di combattenti in vari Paesi del mondo”, fino agli innumerevoli esempi di serie tv, (per citarne due, Breaking Bad, con Walter White, frustrato insegnante di chimica che per il bene della famiglia decide di trasformarsi in narcotrafficante, o Dexter, serial killer giustiziere pieno di dubbi e coltelli affilati).

Il senso delle nostre fascinazioni condizionanti è quello che il critico letterario René Girard nel 1961 definì «desiderio mimetico»: seguendo i grandi classici della letteratura desideriamo quello che desiderano gli altri, modelli da imitare o antagonisti da battere. “Non desideriamo tanto avere qualcosa, ma essere qualcuno” (vedi quel simpatico cialtrone di Don Chisciotte o quella povera anima di Madame Bovary).

Di soggetti particolarmente impressionabili è pieno il mondo: dai fan di Star Wars, riuniti ne Il tempio dell’ordine Jedi, che chiedono di venire riconosciuti come praticanti di una religione ufficiale, agli hippy fuori tempo massimo che vanno incontro alla Grande Consolatrice non a Samarcanda, ma in Alaska, sulle tracce delle patetiche velleità del protagonista di Into the Wild.

Non mancano cortocircuiti eclatanti e scenografici, come il caso dello stragista del cinema di Aurora, in Colorado: durante la proiezione del terzo capitolo della saga del Cavaliere oscuro di Nolan si è calato nei panni del Joker, il supervillain del secondo. Per l’occasione, lasciata a casa quella da clown, ha indossato la maschera antigas. Prima che la tragedia si consumasse, i capelli tinti e lo sguardo da matto lo avevano fatto passare per una trovata pubblicitaria per rendere più memorabile l’esperienza del pubblico della première. Emozionalmente, si era trasformato nel caos personificato dal compianto Health Ledger, come certi uomini che vogliono solo veder bruciare il mondo. Nel suo diario appuntava: «il messaggio è che non c’è messaggio».

Il senso delle nostre fascinazioni condizionanti è quello che il critico letterario René Girard nel 1961 definì «desiderio mimetico»: seguendo i grandi classici della letteratura desideriamo quello che desiderano gli altri

Nei casi estremi, possiamo riassumere con Mastrantonio, “il movente profondo è il narcisismo nichilista: si vuole colpire gli altri, colpire l’attenzione di tutti, diventare famosi, produrre emuli a propria volta”. Nella competizione darwiniana tra realtà e finzione, le sovrapposizioni sono inevitabili, così come le conseguenze (The Blair Witch project fu a suo modo uno spartiacque): “l’informazione usa elementi di fiction per rendere più appetitoso il proprio racconto, mentre la finzione cerca di spacciare come autentico ciò che in realtà è minuziosamente artefatto”. La confusione aumenta proporzionalmente alle capacità tecniche di riprodurre e alterare la realtà da parte della fiction (dal treno dei fratelli Lumiere, che fa scappare dal cinema gli spettatori, l’accelerazione è diventata forsennata), confondendoci sempre di più. Pensiamo alla prima Guerra del Golfo del 1990, live sulle tv di tutto il mondo, la fuga in auto di O. J. Simpson nel 1994, con le volanti della polizia che lo inseguivano in diretta e l’attentato alle Torri gemelle l’11 settembre 2001: “tre narrazioni di cronaca più sconvolgenti di un videogioco, di un telefilm e di un kolossal catastrofico”.

Dai filmati di propaganda dell’Isis (Coming Soon), al mare magnum di pornografia della rete (che da un fine pratico, la stimolazione dell’orgasmo, si trasforma in perversa guida spirituale per i nostri inappagabili appetiti relazionali), realtà e finzione non sono più districabili in tutti i campi. In politica la fusione tra Real-politik e fiction diventa Fictionpolitik (o politica-reality, nel fanatico dogma di una verità pura, indeterminabile per la scienza ma non per l’assolutismo narrativo), la fusione tra letteratura e giornalismo diventa non fiction novel, tra autobiografia e fiction auto- fiction, tra documentario e fiction docufiction, tra informazione e intrattenimento infotainment, tra pubblicità e cinema product placement, passando per convergenze sempre più sofisticate di mezzi, narrazioni e business (viral marketing, emotional marketing, contenuti sponsorizzati e native advertising, fake news, talent show…) fino all’apice della contorsione delle esistenze individuali, dove vita privata e pubblica diventano tutt’uno nei social network su cui continuiamo a fingere di essere chi siamo, emulandoci gli uni con gli altri senza nessun pudore o confine.

Lo storytelling è un serial killer, i suoi delitti sono perfetti: la realtà e la finzione si coprono a vicenda


Luca Mastrantonio

Tra studi su dopamina e neuroni specchio, la palla potremmo passarla agli scienziati, ma il risultato non cambierebbe: “lo storytelling è un serial killer, i suoi delitti sono perfetti: la realtà e la finzione si coprono a vicenda”. Senza preoccuparci troppo delle emulazioni pericolose più immediatamente sconcertanti (suicidi, omicidi e stragi a opera di sociopatici altamente suggestionabili, per quanto inquietanti, difficilmente produrranno più danni alla specie umana di guerre mondiali e genocidi, affamamenti infantili di massa e disoccupazione, che di narrazioni sono spesso oggetto ma che non ne possono esserne considerati conseguenze), e dovremmo invece soffermarci sugli effetti minuti che la storie hanno sulle nostre non necessariamente memorabili vite quotidiane. In tempi così confusi, senso di inutilità, spersonalizzazione e incapacità di avere fiducia nel proprio futuro non possono che spingerci fra le braccia di autoinganni narrativi, individuali e di massa: i Mulini bianchi che ci impediscono di superare i divorzi, le principesse Disney che ci fanno aspettare per tutta la vita il principe azzurro, gli scrittori newyorkesi che si trasferiscono a Los Angeles che ci fanno pensare che se ci trasferiamo da Genova a Milano avremo Sesso Soldi e Successo (Californication mi ha rovinato la vita!), in un loop onanistico che ci rende, più o meno tutti, potenziali soggetti psichiatrici.

Se non ci piace quello che vediamo allo specchio la mattina come possiamo non essere tentati di indossare una maschera grazie alla quale sostenere lo sguardo severo e ipocrita delle nostre aspettative? Le maschere sono finzioni, simboli, menzogne, ma la verità non è il volto svelato sotto la maschera, piuttosto il nostro disperato bisogno di una maschera. Non serve scomodare Pirandello per capirlo: diventiamo le maschere che indossiamo. Mastrantonio, in Emulazioni pericolose, non offre soluzioni, ma una brillante carrellata di esempi e analisi utile a prendere atto che, stringi stringi, lo storytelling è il modo in cui pensiamo, cioè in cui raccontiamo, a noi stessi e agli altri, chi siamo. Che è il primo passo per diventare allo stesso tempo autori e protagonisti del racconto della nostra vita.