Adesso arriva anche il Fondo Monetario internazionale.“I mercati finanziari hanno mostrato preoccupazione per una possibile marcia indietro sulle riforme e per un allentamento fiscale in Italia”, ha spiegato ieri il portavoce dell’istituto di Washington, Gerry Rice. “Tuttavia”, ha aggiunto, “recentemente ci sono state delle dichiarazioni rassicuranti da parte di Conte e Tria”. Un’apertura di credito, o meglio un wait and see. Bisogna vedere le aride cifre, prima di capire che cosa accadrà. Le risposte, anche le più tranquillizzanti, volano via nel vento, come canta Bob Dylan. In cento giorni di governo, del resto, non si contano gli zig zag, i dietro front, i ripensamenti. L’ultimo riguarda l’Ilva.
I Cinquestelle volevano chiudere l’acciaieria tarantina. Poi hanno proposto una radicale riconversione, che equivaleva a dimezzare lo stabilimento, mettendo i lavoratori in cassa integrazione straordinaria (quella pagata dallo stato). Luigi Di Maio ha minacciato di far saltare la gara che aveva assegnato l’Ilva ad ArcelorMittal; quando ha capito che non aveva nessuna possibilità, né legale né sulla base dei puri rapporti di forza, ha giocato al rialzo, nel tentativo di indurre la multinazionale guidata da Lakshmi Mittal a gettare la spugna, con il sostegno del presidente della regione Puglia Michele Emiliano, dei movimenti del No (gli stessi che si oppongono anche al gasdotto Tap) e di alcune frange della Fiom. Infine, immergendosi finalmente nella realtà, ha lasciato che sindacati e azienda raggiungessero un accordo. Il bi-ministro (dello sviluppo e del lavoro) può dire che il risultato finale è migliore di quello ottenuto da Carlo Calenda, perché prevede l’assunzione di 10.700 addetti (400 in più), 100 mila euro lordi per le uscite volontarie e il ripristino dell’articolo 18 per chi resta. Ogni posto di lavoro in più è un bene, sia chiaro, ma ad essere sinceri non ci sono novità sostanziali rispetto alla intesa precedente. Valeva la pena trascinare per oltre tre mesi nell’incertezza i dipendenti dell’Ilva, la città di Taranto, l’ArcelorMittal e anche i fatidici mercati?
Il governo del fare è diventato il governo del faremo (se le condizioni lo permettono), ma più tempo passa meno è chiaro che cosa esattamente faranno i quattro cavalieri: Conte, Tria, Salvini e Di Maio
Potremmo dire tanto rumore per nulla, ma un effetto negativo c’è già stato, soprattutto si è alimentata la grande incognita che grava sull’esperimento giallo-verde. Il governo del fare è diventato il governo del faremo (se le condizioni lo permettono), ma più tempo passa meno è chiaro che cosa esattamente faranno i quattro cavalieri: Conte, Tria, Salvini e Di Maio. Il balletto sul tre per cento (nel rapporto tra disavanzo pubblico e prodotto interno lordo) ci è costato già un bel po’ di miliardi. “Lo sfonderemo”, aveva detto Matteo Salvini, poi “lo sfioreremo”, poi accettiamo le stime di Giovanni Tria (il ministro dell’economia pensa a una forchetta tra 1,6 e 1,8%), poi staremo al due per cento, no, qualcosa in più. Non sono differenze da poco, perché qualche decimale di punto può determinare l’esito delle promesse più rilevanti sulle tasse e sulla redistribuzione assistenziale.
Anche qui, l’incertezza regna sovrana. La flat tax, cioè una imposta unica al 15% è diventata già tre aliquote ovvero due in meno rispetto a quelle attuali (23, 27, 38, 41 e 43%), ma non si sa con quali percentuali e a quanto scenderà la media. Tutto dipende dal calcolo delle risorse disponibili. Perché una cosa è certa: il taglio delle tasse non si autofinanzia, tanto meno nel breve periodo. Non succede negli Stati Uniti, figuriamoci in Italia. L’ufficio di bilancio del Congresso americano ha appena calcolato l’effetto delle riduzioni fiscali varate da Donald Trump nell’autunno scorso e ha trovato che provocheranno un aumento consistente del deficit federale, in media disavanzi di 1.200 miliardi di dollari dal 2019 al 2028 per mancate entrate non compensate dalla maggiore crescita del pil. Salvini ha detto che l’orizzonte della riforma è la intera legislatura, quindi è pronto ad accontentarsi di qualche ritocco non sostanziale. Ma anche questo costa.
Lo spread che aveva raggiunto un massimo di 291,5 punti base il 31 ottobre è sceso a 255, ma resta in zona rischio. Ancor peggio se si guarda alle banche che, piene di Btp, hanno subito una vera e propria batosta dalle intemerate giallo-verdi
Lo stesso vale per il reddito di cittadinanza che ormai sappiamo essere una indennità erogata a chi cerca lavoro. Tuttavia anche nella sua versione minima (cioè il sostegno ai 5 milioni di persone sotto la soglia di povertà) c’è da mettere in conto almeno 4 miliardi subito. Quota 100 per le pensioni costa tra i 6 e gli 8 miliardi. Gli incentivi alle imprese che restano anche se sono rivisti, hanno bisogno almeno di altri 3-4 miliardi. Senza dimenticare che bisogna trovare 12,4 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva. Insomma, ci si avvia verso una manovra da 30 miliardi di euro che dovrà essere coperta con tagli alle spese e nuove entrate. La “pace fiscale” non frutterebbe a sufficienza a meno che non si tratti di un vero condono molto esteso.
A palazzo Sella, quartier generale del Tesoro e della Ragioneria di stato, stanno facendo i conti, ma lo stesso fanno, sia pure a spanne, quelli che comprano e vendono titoli di stato. Lo spread che aveva raggiunto un massimo di 291,5 punti base il 31 ottobre è sceso a 255, ma resta in zona rischio. Ancor peggio se si guarda alle banche che, piene di Btp, hanno subito una vera e propria batosta dalle intemerate giallo-verdi. Tutto questo avviene in uno scenario di rallentamento della crescita la quale era già la più asfittica della zona euro. Sia gli operatori sia il Fondo monetario, dunque, chiedono certezze. Ma la confusione è ancora grande sotto il cielo di Roma.
L’altro ieri sembrava che ci fosse una schiarita sui vaccini, facendo prevalere il rispetto della legge. Ieri è stato tutto riaperto: fino a marzo basterà l’autocertificazione. Un pugno di fondamentalisti in Parlamento sta gettando nel caos l’inizio delle scuole. Che valore possono avere le rassicurazioni degli stessi esponenti del governo? Il “contrordine compagni” all’insegna della moderazione e della ragionevolezza è durato, letteralmente, lo spazio di un mattino.
Cofusion de confusiones anche su Autostrade. Non si sa chi, come e quando rifarà il ponte Morandi. Un giorno si giura sulla nazionalizzazione, il giorno dopo arriva la marcia indietro. Bisogna far pagare i Benetton, ma se propongono di ricostruire con i soldi loro, il governo dice no e vuol far ricostruire con i soldi nostri (nell’attesa che decennali tempi della giustizia stabiliscano di chi è colpa). Intanto sulla Lega piomba il sequestro, sia pur scontato, dei 49 milioni di euro. “Il popolo è con noi”, proclama Salvini sfidando la magistratura. Può darsi che il capo, interprete del corpo mistico del popolo, possa governare al di sopra della legge. Ma poi è il popolo a pagare. E come, con una colletta, con un prelievo forzoso sugli eletti tipo la srl di Casaleggio o con una addizionale sulla benzina? Non ci resta che attendere; stando ai sondaggi, gli elettori sembrano pazienti, i mercati invece non sono certo in mano a Giobbe.