Da quando scriveva battute per un sito americano di meteo, “Nuvoloso con possibili precipitazioni di polpette”, a quando ha portato per la prima volta alla cena dei corrispondenti della Casa Bianca il comico preferito di Barack Obama in uno sketch accanto a Barack Obama, la carriera di David Litt è stata veloce, fulminante. Così è Litt medesimo, un furetto dai capelli rossicci e dalla figura agile e minuta che alla Casa Bianca è entrato come speechwriter del presidente nel 2010, quando aveva solo ventiquattro anni. Una cosa impensabile per l’Italia. E così, quel giovane democratico entusiasta – “ci chiamavano Obamabot, e sì, avevamo proprio una fede cieca, acritica” è diventato l’uomo dei discorsi, ma soprattutto delle battute, del primo presidente di colore degli Stati Uniti. Ha curato quattro delle apparizioni presidenziali a quel gran rito laico americano che è la White House Correspondents’ Dinner, in cui il presidente, dal 1924, si sottopone al confronto e allo scherno dei giornalisti, e ricambia con quindici minuti di battute più o meno urticanti. E a cui Donald Trump, da due anni, ha scelto di sottrarsi. Litt era colui che coordinava il team che sfornava per Obama centinaia di battute “potenziali”, delle quali solo poco più di una decina diventavano poi parte del monologo definitivo. Un’avventura raccontata in modo scanzonato e quasi minimalista da Litt in un bel libro, Grazie, Obama (HarperCollins), appena presentato a Pordenonelegge e a Una Montagna di Libri, a Cortina d’Ampezzo. Parlando con Linkiesta, Litt mette da parte le nostalgie per l’era Obama e va dritto all’attualità della presidenza Trump. A cominciare dal caso di Brett Kavanaugh, candidato scelto dall’attuale presidente a luglio per occupare il posto di giudice della Corte Suprema lasciato libero da Anthony Kennedy.
Litt, come si è arrivati al caso Kavanaugh così com’è ora?
Viviamo un momento decisivo per le sorti della Corte suprema degli Stati Uniti. I conservatori hanno l’opportunità di conquistarvi una maggioranza per una generazione e forse oltre, e sarebbe una maggioranza di estrema destra. La posta in gioco è alta. Kavanaugh stava già affrontando critiche e rilievi, perché i repubblicani al Senato avevano scelto di rendere pubblica solo una piccola porzione dei documenti relativi alla sua condotta passata. E adesso, al culmine di tutto questo, tre donne lo accusano di molestie sessuali ai loro danni.
È tutta una cospirazione della sinistra, come ha detto la Casa Bianca, o i repubblicani hanno semplicemente puntato sull’uomo sbagliato?
Ha presente che cos’è negli Stati Uniti quel meccanismo chiamato vetting [approvazione in italiano, ndr]? E’ un lungo processo di verifica a cui si sottopone ogni candidato a una carica pubblica, perché si possa conoscere il suo operato, le sue azioni passate, le sue posizioni. Ecco, è evidente che con l’intera candidatura Kavanaugh il GOP non ha fatto un buon lavoro. Una teoria comune è che Trump lo abbia scelto non tanto perché è conservatore, ma perché è la persona che gli dà le maggiori garanzie di operare a suo favore nelle spinose questioni personali. Il che è perfettamente in linea con il dibattito che stiamo affrontando negli Stati Uniti oggi: il Presidente è al di sopra della legge? Un presidente può commettere un crimine, essere perseguito ed eventualmente condannato? Kavanaugh sembra pensare che no, un presidente è escluso dal normale procedimento giudiziario.
Che cosa succederà adesso?
Non ho idea di cosa accadrà. Penso che quello che dovrebbe succedere è che l’FBI investighi sul caso, e cerchi la verità nel modo più completo e chiaro, prendendosi il tempo che serve. Ma i repubblicani sono molto determinati nel procedere il più speditamente possibile.
Con Kavanaugh in particolare?
La maggior parte di loro si accontenterebbe di qualsiasi candidato conservatore, pur di spuntarla in fretta. Ma credo che per Trump ormai l’affare Kavanaugh sia una questione di orgoglio personale. Eppure non è solo orgoglio. Se passa la linea che le accuse di violenza sessuale contro un personaggio pubblico vanno prese seriamente, allora la stessa cosa vale per il presidente, che è attualmente sotto indagine. È una porta che si apre: dare credito alle donne. Dove può portare?.
Che cosa sperano di ottenere i democratici da tutta la vicenda?
Non lo so. Da una parte provano una rabbia più che genuina, per l’attenzione che sentono dovuta a vicende che riguardano casi potenziali di violenza sessuale e che Trump minimizza. Ma c’è di più. Il fatto è che Kavanaugh non è solo conservatore, è una figura estremamente di parte, anzi, è di fatto omogeneo al partito repubblicano. E i democratici non hanno perdonato al GOP di avere impedito a Obama di nominare un giudice nella parte finale del suo mandato. Questa non è più solo una questione di opinioni politiche: è un tentativo unilaterale di riscrivere le regole del gioco, di sabotare gli equilibri bipartisan che reggono l’America”.
Ma ha un senso questa battaglia, se, come dicono i sondaggi, nelle midterm di novembre i repubblicani hanno una probabilità superiore al 70% di mantenere il controllo del Senato, che è l’unico organo che decide sulla nomina dei giudici della Corte?
Be’, la strada verso le elezioni è lunga. Il 6 novembre potremmo ritrovarci con una probabilità del 15 o del 50% che i democratici si riprendano il Senato. Chi può dirlo ora. E poi, la cosa va al di là della politica di partito. Intendo che nell’era del MeToo c’è il dovere morale di prendere tutte queste vicende seriamente. Chiunque sia il candidato, deve essere seriamente vagliato, perché si tratta di una carica a vita. Dobbiamo sapere che cosa potrà fare una volta in carica. Se, ad esempio, intende ribaltare le leggi sull’ambiente, o persino la Roe v. Wade, cioè la sentenza che legalizzò l’aborto nel 1973”.
Come andranno le midterm?
Al Senato e alla Camera dei rappresentanti ci sono due scenari differenti. Ognuno dei cinquanta Stati americani, come è noto, elegge due senatori. Solo un terzo dei cento seggi senatoriali viene rinnovato ad ogni elezione. Il caso vuole che nel 2018 si rinnovino seggi che sono già in maggioranza occupati da democratici, quindi la partita per far perdere il controllo di questo ramo del congresso ai repubblicani è difficile. Al momento, la probabilità è che i dem non perdano seggi, ma che facciano fatica a conquistare il controllo del Senato. E’ già una buona notizia, per la sinistra: un anno fa non c’era proprio speranza di capovolgere gli esiti, ora la partita si gioca sul filo del rasoio. E questo accade in Stati politicamente tutt’altro che liberal, come il Tennessee, l’Arizona, il Texas. Anche in Nevada la sfida è aperta.
E per quanto riguarda la Camera?
Qui non c’è dubbio che a livello nazionale i democratici prenderanno più voti dei repubblicani. E che conseguentemente guadagneranno seggi. La domanda è: quanti? Hanno bisogno di conquistarne ventisette per ribaltare la maggioranza alla Camera. Ce la faranno? La maggior parte dei sondaggi mostra che se si votasse oggi sarebbe probabile, ma la questione è tutt’altro che decisa, ovviamente. Siamo in una forchetta di possibilità che va da una maggioranza risicata del GOP a una consistente vittoria dei dem.
Ha appena detto che i democratici avranno molti più voti popolari dei loro avversari. Perché questo non si traduce automaticamente in una maggioranza di seggi?
I repubblicani hanno ridisegnato i confini di molti collegi elettorali con lo specifico intento di ricavare il massimo profitto in termini di seggi anche ricevendo meno voti. E’ quello che comunemente si chiama gerrymandering: al punto in cui ci troviamo, per arrivare ad avere una maggioranza alla Camera i democratici hanno bisogno di un vantaggio di otto, nove punti percentuali nei voti. Ci rendiamo conto della follia di questo?
I libri per capire la politica americana oggi? Winner Take All Politics, di Jacob Hacker, When the Tea Party Came to Town, di Robert Draper, Trumpocracy, di David Frum, One Nation After Trump, di E.J. Dionne, Norm Ornstein, Thomas Mann
Cosa ne pensa dei nuovi candidati ultra progressisti che stanno emergendo alle primarie, come la giovane ispanica Alexandria Ocasio-Cortez a New York e Ayanna Pressley in Massachusetts?
Penso che, prima che di carattere ideologico, il trend del 2018 per i democratici è che vincono più donne e più candidati non bianchi. I democratici insomma sono un partito sempre più votato alla diversità, sempre più rispecchiante com’è fatta realmente l’America. E questo è fantastico. Poi è vero, in alcune aree candidati molto di sinistra stanno andando forte, ma non va ovunque così. Per esempio, a New York la Ocasio-Cortez ha vinto le primarie, ma sempre a New York Cynthia Nixon, un’altra progressista che era in corsa per la nomination a governatrice, non ce l’ha fatta. Insomma, che in zone molto liberal di New York o di Los Angeles vincano progressisti non mi stupisce, mi colpiva anzi il contrario, che fino a qui quei luoghi fossero rappresentati da centristi, lontani dal profilo demografico delle proprie constituency. Quindi, cosa abbiamo? Abbiamo un partito che è sicuramente più progressista che in passato, abbiamo alcuni candidati di sinistra che raccolgono successi in zone di sinistra, ma non c’è quel tipo di marea, di azzeramento dalle frange radicali che ha subito il GOP con la destra estrema dei Tea Party otto anni fa.Parliamo di Presidenziali 2020. Quali sono i candidati democratici in campo per sfidare Donald Trump?
La scena che dobbiamo aspettarci è opposta a quella vista nel 2016. Allora c’era una candidata dell’establishment, Hillary, sfidata dal solo Sanders. Nel 2020 sarà il contrario: un grande numero di figure, il che è eccitante ma crea anche molte variabili. Tra le candidature che vanno dal probabile al sicuro, citerei il sindaco di Los Angeles Eric Garcetti, la prima cittadina di New Orleans LaToya Cantrell, i senatori Cory Booker, Kirsten Gillibrand, Kamala Harris ed Elizabeth Warren, e poi figure prestate dal mondo del business, come Mark Cuban, e c’è infine anche la possibilità che si candidi l’ex vicepresidente, Joe Biden. Ma ne ho sicuramente dimenticato qualcuno”.Un presidente democratico avrebbe una maggiore considerazione del patto Atlantico e del rapporto con l’Europa di quella che ha mostrato Trump, o, come hanno suggerito certe scelte di Obama durante la sua presidenza, ormai l’orizzonte statunitense è la Cina e il Pacifico?
Qualsiasi presidente americano dovrebbe avere in testa l’Asia e il Pacifico, se non altro per una questione numerica ed economica. Detto questo, sì, un democratico tratterebbe la relazione atlantica in modo molto diverso da come sta facendo Trump. Il rapporto America – Europa è di vitale importanza. Tanto di più in questo momento in cui le democrazie sono sotto attacco a livello globale.Che libro sta scrivendo adesso?
È un libro sul sistema politico americano. Dalle presidenziali 2016 molti nostri concittadini hanno cominciato a seguire la politica in un modo che non si era visto prima. E’ la stessa cosa che vi siete chiesti molti di voi europei guardando a Washington in quel novembre di due anni fa: che casino sta succedendo? C’è qualcosa che non funziona nel sistema, anche se non si capisce esattamente cosa. Il mio prossimo libro prova a investigare le cause della presente condizione e a proporre qualche rimedio. E lo fa nel modo più divertente possibile.Perché è dovuto andare fino in Islanda per scriverlo?
Dovevo fare ricerca su un caso di democrazia vichinga.Prego?
Nel Medioevo, a un certo punto, in modo piuttosto clamoroso e sicuramente affascinante, i vichinghi hanno avuto un’esperienza simile alla nostra, cioè di un governo fatto di rappresentanti eletti che poi, gradualmente, perdeva l’equilibrio di pesi e contrappesi su cui si reggeva il sistema, portando a perdere fiducia nell’autogoverno e infine a rinunciarvi. Non è proprio quello che sta succedendo da noi, ma ci sono dei sinistri paralleli.Quali libri consiglia per capire la politica americana oggi?
Winner Take All Politics, di Jacob Hacker, When the Tea Party Came to Town, di Robert Draper, Trumpocracy, di David Frum, One Nation After Trump, di E.J. Dionne, Norm Ornstein, Thomas Mann. Ah, e un classico del 1971 di Mike Royko, Boss, dedicato all’allora sindaco di Chicago, il famigerato Richard Daley. Leggendolo ho capito molte cose dell’attuale presidente degli Stati Uniti.Che consiglio darebbe al suo omologo, lo speechwriter di Trump, se esiste?
Di andarsene.