Il poveruomo italiano sopravvissuto alle streghe del MeToo è ora pronto ad un’altra e ben più impegnativa battaglia, cioè quella di rimettere a posto le sue ex – quelle che ha sposato si intende, le altre non fanno testo – e le loro pretese predatrici su figli, soldi, case. Sui social si festeggia il disegno di legge del senatore Simone Pillon, co-firmato da Cinque Stelle e Lega e presentato ieri al Senato dove ha iniziato il suo iter in Commissione Giustizia. Il nocciolo è l’abolizione dei vecchi alimenti, la cifra fissa che veniva concessa all’affidatario dei figli, cioè generalmente la madre, per sostituirli col pagamento diretto delle spese a piè di lista detto anche mantenimento diretto. I firmatari della legge ammettono che la scelta è avvenieristica, che il mantenimento diretto non esiste in alcuna parte del mondo tranne California, Belgio e Stato di Washington, ma perché non osare l’avanguardia? E non dite che è difficile paragonare l’Italia con Paesi a piena occupazione femminile. Se le italiane separate non hanno lavoro che vadano a lavar le scale, se ne gioverebbe anche il contingentamento delle colf di origine moldava, rumena, polacca.
La si butta a ridere perché altro non sembra possibile fare. Il ddl ha un largo consenso, oltre i confini della maggioranza. La destra moderata è incline ad accettarne i principi. La sinistra forse strillerà un po’, ma difficilmente entrerà in conflitto con l’armata dei padri separati che da anni è diventata assai potente e decisa a ribaltare codici che ritiene punitivi. Il mondo cattolico probabilmente resterà alla finestra: le nuove «norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità» trasformano separazione, divorzio e cura dei figli in un tale calvario che molte rinunceranno con un mesto ritorno all’ipocrisia dei tempi antichi. Teniamoci il matrimonio, pure se non funziona, perché romperlo rischia di sfasciarci la vita.
L’abolizione degli alimenti, infatti, comporta una bizantina costruzione giuridica davanti alla quale anche i più determinati si arrenderanno. Per suddividere le spese a metà anche i figli devono essere divisi a metà: tempi equidistanti tra le case dei genitori separati. Il coniuge che resta nella ex-casa famigliare dovrà pagare l’affitto all’altro. Le decisioni di vita quotidiana le prende il coniuge che in quel momento ospita: vuoi saltare nuoto? Se sei da mamma è no, se sei da papà va bene (così mi risparmio l’accompagnamento, o viceversa). Le scelte importanti come scuola, studi, vacanze, invece devono essere condivise in un piano genitoriale – una specie di piano quinquennale dell’educazione del pupo – e nel caso di conflitto arriverà un coordinatore genitoriale a sbrogliare le cose oppure a decidere d’autorità.
Comunque, se fossimo un altro Paese, se fossimo un altro tipo di madri, verrebbe voglia di adottare la strategia del pop-corn, fare ponti d’oro alla riforma e stare a vedere questi ex-mariti italiani alle prese per quindici giorni consecutivi con uno o due bambini fra i tre e i sei anni ma anche fra gli undici e i quindici, godendoci con i piedi sul divano il pensiero delle loro giornate
Un capitolo a parte della legge riguarda le sacrosante preferenze del bimbo tra Genitore Uno e Genitore Due. Non potrà averne, soprattutto in fase di separazione. Se punterà i piedi col Genitore Uno per rifiutare il quindicinale trasloco dal Genitore Due che magari sta in un altro quartiere, lontano dai suoi amici, o forse non gli piace tanto perché strilla troppo e ogni tanto alza le mani, si rischia di incappare nella fattispecie dell’articolo 18. Servizi sociali, ordine di protezione, Genitore Uno interdetto, affidamento a casa-famiglia nelle situazioni più gravi. Su questo, davvero, servirebbe un lungo e serissimo discorso perché la legge dà per scontato che se un figlio ha problemi con un genitore la colpa è dell’altro «pur in assenza di specifiche condotte» di ostilità o denigrazione. Chi conosce un po’ i bambini sa che si solito i motivi di rifiuto sono concreti, solidi, legati a conflitti di cui gli adulti responsabili dovrebbero farsi carico invece di negarne l’esistenza per riversare ogni colpa sulla malignità dell’ex.
Comunque, se fossimo un altro Paese, se fossimo un altro tipo di madri, verrebbe voglia di adottare la strategia del pop-corn, fare ponti d’oro alla riforma e stare a vedere questi ex-mariti italiani alle prese per quindici giorni consecutivi con uno o due bambini fra i tre e i sei anni ma anche fra gli undici e i quindici – la sveglia, gli orari, gli accompagnamenti, i rientri pomeridiani, la febbre, le lavatrici, le manate di Nutella sulla giacca appena stirata, le visite a nonna – godendoci con i piedi sul divano il pensiero delle loro giornate. Purtroppo veniamo da una cultura latina e non ce la facciamo proprio. Abbiamo altresì il timore che questa salomonica divisione di tempo, lavoro di cura, soldi, alla fine funzioni solo per i soldi perché già immaginiamo la telefonata quando il padre devoto scoprirà che i bambini allagano bagni e sfasciano telecomandi la sera della partita, che gli adolescenti fanno sega a scuola e rubano alcolici: «Vieni a prendertelo, prima che lo ammazzi», un classico.