La prossima grande crisi sarà peggio di quella del 2008 (e le stiamo correndo incontro)

Il debito pubblico mondiale è tre volte tanto quello del 2008 e le banche centrali hanno stampato moneta senza sosta. Ma l’economia non riparte e la gente vuol sempre più protezione: ecco perché il peggio deve ancora venire

La grande crisi non è cominciata con il fallimento della Lehman Brothers. Tuttavia sono i lupi di Wall Street che battono in ritirata con gli scatoloni in mano e la coda tra le gambe, a segnare l’immaginario collettivo dal 15 settembre di dieci anni fa. Nella ricerca delle responsabilità, mentre è ormai chiara la follia della finanza allegra che nasce dalla bolla immobiliare americana esportata in tutto l’occidente, non viene analizzata con altrettanta efficacia la debolezza endemica del sistema bancario europeo che ha trascinato con sé il mondo sviluppato e quello in via di sviluppo. Le prime banche ad alzare bandiera bianca non erano americane, ma europee.

L’antipasto si è consumato in Germania nel luglio 2007. La IKB Deutsche Industriebank nata per fornire denaro alle piccole e medie imprese, aveva scommesso ingenti somme sui subprime americani e si trova un ingente buco nel bilancio che viene coperto dal governo attraverso la KfW (cugina germanica della italiana Cassa depositi e prestiti). Il 9 agosto 2007 BNP Paribas una delle tre grandi banche francesi, annuncia di essere costretta a chiudere tre dei suoi fondi d’investimento a causa della eccessiva volatilità dei titoli garantiti da mutui immobiliari negli Stati Uniti. Il giorno stesso la Banca centrale europea inietta 131 miliardi di dollari nelle istituzioni finanziarie europee, affinché non restino a secco. Poi arriva il crac più clamoroso, quello della Northern Rock in Gran Bretagna colpita a sua volta dalle difficoltà della BNP. E comincia un effetto domino che travolge le maggiori banche europee e si trasmette a quelle americane. Nell’aprile del 2008 crolla Bear Stearns e il George W. Bush spinge JP Morgan a comprarla. Intanto, la crisi finanziaria diventa recessione mondiale: nella primavera di quell’anno il commercio internazionale è già crollato del 25%.

Da allora a oggi molte cose sono cambiate, ma la sfilza di rievocazioni che riempie i mass media sembra giungere per lo più alla stessa conclusione: le trasformazioni realizzate non sono abbastanza profonde e radicali da scongiurare una nuova crisi della stessa portata. Non solo, la lunga recessione prima ha rimesso in discussione il modello economico liberista, e adesso sta attaccando alla radice il modello politico liberal-democratico che ne rappresenta la cornice ideale e istituzionale. La crisi finanziaria è diventata davvero sistemica. Si tratta di un’analisi che accomuna pensatori sofisticati così come politici ruspanti, per non parlare di Vladimir Putin o Xi Jinping che vogliono offrire la loro alternativa autoritaria a un Occidente senza bussola.

L’ultimo numero di Foreign Affairs, la più autorevole rivista americana di relazioni internazionali, è tutto dedicato a una riflessione sulle conseguenze della grande crisi, con contributi importanti dallo storico Adam Tooze che ha pubblicato un libro sull’intero decennio (Lo schianto, Mondadori) a Carmen e Vincent Reinhart, tra i maggiori esperti di debiti pubblici, per capire che cosa abbiamo imparato da allora. La riflessione più nuova riguarda la ricaduta politica. Perché dalla crisi ha tratto alimento e potere l’estrema destra populista? E perché non l’estrema sinistra, quella che per prima vent’anni fa metteva sotto accusa la globalizzazione? Una delle spiegazioni di carattere sociologico è che quando l’ascensore sociale scende, è più facile che il risentimento collettivo e la collera dei perdenti prendano strade eversive e ribellistiche, non rivoluzionarie nel senso comune del termine; in ogni caso non progressiste perché è proprio il mito delle “magnifiche sorti e progressive” a venir meno. Un’altra spiegazione è che la crisi ha creato un bisogno diffuso di protezione “dalla culla alla tomba”, riesumando da un lato il dogma dello stato padre e madre, e dall’altro il mito del bel tempo perduto.

Il paradosso è che questo sentimento diventato maggioritario in paesi duramente colpiti come l’Italia, s’accompagna a una realtà del tutto ignorata sia dai propagandisti del nuovo regime sia dagli analisti che mostrano ancora indipendenza di giudizio. E la realtà è che mai come in questi anni, quanto meno mai dalla grande depressione del secolo scorso, è aumentato l’intervento dello stato in economia e con esso la protezione assicurata attraverso le finanze pubbliche. Detto in altri termini, si è manifestato un trasferimento di denaro molto ampio dal centro alla periferia del sistema, dai contribuenti e dai risparmiatori a chi ha un reddito inferiore alla soglia fiscale o ha perso il posto di lavoro. Ciò sfida il luogo comune sull’aumento strutturale della diseguaglianza (c’è stato un aumento nei primi anni, ma soprattutto di natura congiunturale, cioè dipende dalla recessione o dalla rivoluzione tecnologica, mentre la ripresa sta restringendo la forbice). Tuttavia, due dati macroscopici confermano questa analisi.

Pagare meno e pasti gratis, più debito, meno concorrenza, più stato meno mercato, sono questi i refrain che rimbalzano dai social media, dalle tv, dai giornali, sono i dogmi del nuovo pensiero unico. Lehman Brothers ci ha lasciato una scia nera di rabbia, risentimento, rivincita, le tre R che campeggiano nelle bandiere del popolo in marcia. Verso dove? Non è difficile rispondere: verso una nuova crisi, forse persino peggiore politicamente e socialmente

Il primo è il balzo del debito pubblico con il quale sono stati coperti i salvataggi, quelli economici riguardanti banche e imprese e quelli sociali, con indennità di disoccupazione, cassa integrazione, assegni di povertà. La Banca dei regolamenti internazionali, cioè la banca delle banche centrali, nel suo ultimo rapporto scrive che l’indebitamento complessivo è passato in questo decennio dal 110 al 330 per cento del prodotto lordo mondiale, insomma è triplicato, il debito pubblico nell’area dell’euro è pressoché raddoppiato. La ripresa economica ha ridotto solo parzialmente questa montagna che, secondo la Bri, rappresenta oggi il freno più importante alla crescita.

Il secondo dato è la quantità di moneta stampata dalle banche centrali: migliaia di miliardi di dollari gonfiano la Federal Reserve, la Bce, la Banca d’Inghilterra, la Banca del popolo cinese omla giapponese. Scrive la Bri: “Grazie agli sforzi congiunti delle banche centrali e al loro orientamento accomodante, si è evitata una seconda Grande Depressione. Tassi di interesse storicamente bassi, se non negativi, e bilanci delle banche centrali insolitamente voluminosi hanno fornito un sostegno importante all’economia mondiale e hanno contribuito alla graduale convergenza dell’inflazione verso i suoi obiettivi. Tuttavia, le banche centrali hanno dovuto ampiamente farsi carico da sole del peso della ripresa, dato che le altre politiche, non da ultime quelle strutturali dal lato dell’offerta, non hanno saputo raccogliere il testimone”. Anche questa che potremmo chiamare protezione monetaria è strettamente collegata alla protezione debitoria e rappresenta oggi un ostacolo a quello che molti economisti chiamano “ritorno alla normalità”.

I due salvagente possono essere sgonfiati (in modo parziale e progressivo per non provocare sconquassi economici e sociali) solo con un ritorno alla crescita stabile e con opportune politiche fiscali. Qui è Rodi, ma nessuno vuole fare il salto. Il rifiuto degli aggiustamenti fiscali necessari a rimettere in sesto i bilanci pubblici e il no alle riforme strutturali per rendere più efficienti e dinamici i mercati (a cominciare da quelli del lavoro) sono le due bandiere innalzate dagli agitprop populisti. Pagare meno e pasti gratis, più debito, meno concorrenza, più stato meno mercato, sono questi i refrain che rimbalzano dai social media, dalle tv, dai giornali, sono i dogmi del nuovo pensiero unico. In Italia è evidente, ma il tam tam si diffonde ovunque dal Reno al Danubio, dal Baltico al Mar Nero. Lehman Brothers ci ha lasciato una scia nera di rabbia, risentimento, rivincita, le tre R che campeggiano nelle bandiere del popolo in marcia. Verso dove? Non è difficile rispondere: verso una nuova crisi, forse persino peggiore politicamente e socialmente. I guru interpellati da Foreign Affairs su molte analisi divergono, ma alla fine su questo sono sostanzialmente d’accordo. Speriamo che siano solo gufi sapientoni.

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