Ha fatto molto scalpore, e giustamente, il report dell’Ispi secondo cui, negli ultimi quattro mesi, nel Mediterraneo Centrale (cioè includendo anche i migranti partiti dalla Tunisia) più di 8 persone al giorno sono annegate nel tentativo di raggiungere le coste italiane. Il rapporto mette a confronto il tasso di mortalità in mare registrato durante la precedente gestione del ministero dell’Interno (luglio 2017 – maggio 2018), quella di Marco Minniti (Pd), pari a 3,2 persone al giorno e a quello dell’anno precedente lo stesso Minniti (luglio 2016 – luglio 2017), pari a 11,7 persone al giorno, per concludere che la politica “porti chiusi” del Governo Conte incide poco sulla quantità degli arrivi e molto su quella dei morti in mare.
È un dramma atroce, è persino scontato dirlo. Ancor più se si pensa che negli ultimi quindici anni nel Mediterraneo sono scomparse più di 15 mila persone e in ogni caso i flussi, rallentati da misure di contenimento comunque contestate perché poco “umane” (Minniti, assai prima di Salvini fu messo sotto accusa), non si sono arrestati. Proprio questi dati, però, dovrebbero invogliarci a osservare il fenomeno dei flussi migratori, delle strategie per affrontarlo e regolarlo e della protezione da offrire ai migranti, in modo un po’ meno perbene e un po’ più concreto, senza troppo badare alla convenienze del nostro inguaribile eurocentrismo.
Nel 2018 i soli eritrei hanno costituito il 16% di tutti i migranti approdati in Italia, ovvero la seconda nazionalità dopo i tunisini con il 19%. Ed è indubbio che la Tunisia sia assai più vicina all’Italia dell’Eritrea. Secondo stime credibili ma ormai datate, più di 4 mila eritrei scappano dal proprio Paese ogni mese e ormai almeno mezzo milione di eritrei (su una popolazione totale di 6,5 milioni di persone) se n’è andato per migrare. Mezzo milione su 65 milioni non è una fuga, è un esodo di massa
Ci sono domande scomode da affrontare. Per esempio: com’è possibile che così tante persone, in gran parte maschi adulti, scappino dall’Eritrea, Paese dal 1993 inchiodato alla dittatura del presidente Isayas Afewerki e di solito descritto come un “carcere a cielo aperto”? È così facile scappare da un carcere? Nel 2018 i soli eritrei hanno costituito il 16% di tutti i migranti approdati in Italia, ovvero la seconda nazionalità dopo i tunisini con il 19%. Ed è indubbio che la Tunisia sia assai più vicina all’Italia dell’Eritrea. Secondo stime credibili ma ormai datate, più di 4 mila eritrei scappano dal proprio Paese ogni mese e ormai almeno mezzo milione di eritrei (su una popolazione totale di 6,5 milioni di persone) se n’è andato per migrare. Mezzo milione su 65 milioni non è una fuga, è un esodo di massa. Siamo sicuri che il regime, quel regime che pure riceve aiuti dall’Unione Europea, non sia al corrente? Non intervenga? Non sia magari complice?
Ho fatto il solo esempio dell’Eritrea per dire che la Libia e il Mediterraneo, su cui ci concentriamo in maniera quasi ossessiva, non sono né saranno, in ogni caso, i “luoghi” in cui il problema delle migrazioni dall’Africa potrà essere risolto. Sono solo i teatri più vicini a noi, quelli che abbiamo sotto gli occhi. Per ottenere qualcosa dovremmo dunque preoccuparci di quanto succede ai migranti PRIMA della Libia. E ciò che ci dicono le osservazioni più serie, come quelle di Richard Danzinger, direttore per l’Africa Orientale e Centrale dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni dell’Onu (Oim), è che muoiono molti più migranti nei deserti africani che nel Mediterraneo. Circa il doppio, anche se ovviamente mancano statistiche più precise.
Tutto questo si svolge sotto gli occhi dei Paesi occidentali, che hanno riempito l’Africa di missioni militari e hanno quindi occhi e orecchie attrezzatissimi sul posto. Gli Stati Uniti hanno basi militari a Gibuti, in Etiopia, in Niger (proprio ad Agadez), in Camerun e hanno svolto esercitazioni militari in Marocco, Guinea, Ghana e Camerun. Il 17% delle forze speciali americane è di stanza in Africa
Non bisogna essere dei geni per capirlo, peraltro. Da Agadez, il centro del Niger che è considerato uno dei maggiori hub per il traffico di esseri umani, a Tripoli (Libia) ci sono 3.300 chilometri. Prima ancora, per arrivare ad Agadez dal Ghana ci sono altri 2 mila chilometri, dal Camerun 2.200, dal Senegal 3.700. Dalla già citata Eritrea alla Libia sono più di 5 mila chilometri. Percorsi durissimi attraverso i deserti, che i migranti affrontano in condizioni di estrema debolezza, esposti non solo alle fatiche del viaggio ma anche alle violenze dei trafficanti e degli Stati che attraversano. Anche qui un solo esempio: secondo quanto riportato dall’Associated Press sulla base di dichiarazioni dei funzionari dell’Oim, “l’Algeria ha lasciato più di 13.000 migranti nel deserto del Niger e del Mali da maggio 2017, costringendoli a camminare o morire”.
Quel che è peggio, però, è che tutto questo si svolge sotto gli occhi dei Paesi occidentali, che hanno riempito l’Africa di missioni militari e hanno quindi occhi e orecchie attrezzatissimi sul posto. Gli Stati Uniti hanno basi militari a Gibuti, in Etiopia, in Niger (proprio ad Agadez), in Camerun e hanno svolto esercitazioni militari in Marocco, Guinea, Ghana e Camerun. Il 17% delle forze speciali americane è di stanza in Africa. Senza contare la forza navale che regolarmente incrocia al largo delle coste africane.
Dovremmo naturalmente aggiungere quanto Francia e Reno Unito hanno fatto per distruggere la Libia nel 2011 e quanto la Francia va facendo da allora, attraverso Hollande e Macron, per distruggere anche quel poco che della Libia è rimasto
La Francia ha missioni militari permanenti in Senegal, Gabon e Costa d’Avorio e basi in Niger, Ciad, Gibuti e Centrafrica. I francesi sono intervenuti militarmente infinite volte nell’area sub sahariana, anche contro il terrorismo islamista. Operano molto spesso in sintonia con le forze americane e alle loro azioni nell’immensa area costituita da Ciad e Niger, più Camerun, Nigeria e Benin contribuisce anche il Regno Unito. La Germania, a sua volta, è presente in Mali, Sudan e Sud Sudan. Dovremmo naturalmente aggiungere quanto Francia e Reno Unito hanno fatto per distruggere la Libia nel 2011 e quanto la Francia va facendo da allora, attraverso Hollande e Macron, per distruggere anche quel poco che della Libia è rimasto. Resta comunque il fatto che, se parliamo di migranti, la Libia è un problema (e bisogna fare di tutto per risolverlo) ma non il maggiore dei problemi. È solo il problema a noi più vicino. E le cronache che arrivano dall’Africa ci dicono che laggiù sperimentano gli stessi problemi che a noi sembrano esclusivi della porzione Libia-Mediterraneo.
Convincerli a non partire, costruendo per loro, nei loro Paesi, condizioni migliori di vita. Solo questo serve, se vogliamo ridurre i flussi migratori e le conseguenti morti. Tutto il resto è un pigolio a tratti nobile ma inefficace
In Niger le autorità sono intervenute per chiudere i ghetti dove i migranti venivano ammassati prima di affrontare la traversata del deserto e arrestare i trafficanti. I risultati sono stati due: meno migranti in partenza e più morti nel deserto, perché l’aumento del rischio ha reso i trafficanti sempre più inclini ad abbandonare nel nulla la loro “merce” al minimo segnale di rischio. Convincerli a non partire, costruendo per loro, nei loro Paesi, condizioni migliori di vita. Solo questo serve, se vogliamo ridurre i flussi migratori e le conseguenti morti. Tutto il resto è un pigolio a tratti nobile ma inefficace. Non è possibile, dite? Non si può fare? Costa troppo? Allora pensate che per le guerre in Afghanistan e in Iraq, secondo i calcoli dell’economista Linda Blaines dell’Università di Harvard, gli Stati Uniti da soli hanno speso finora tra 4 mila e 6 mila miliardi di dollari. E non è ancora finita. Si potrebbe. Si potrebbe eccome.