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L’incrocio di due anniversari importanti e una rivelazione agghiacciante mi paiono una concreta ‘notizia’. Ma forse non è così. Gli anniversari che s’intramano sono funerei entrambi. Il primo più del secondo. Il secondo è la morte di Octavio Paz, il 20 aprile del 1998, vent’anni fa. Octavio Paz è riconosciuto – faccio ripetere alla Treccani per evitare facili tautologie – “tra i maggiori intellettuali messicani e dell’America latina”, tanto che “si affermò come un innovatore del costume letterario e delle concezioni culturali”. In modo stringato: è tra i sommi poeti latinoamericani, tra i grandi teorici dell’arte poetica, tutti meriti sanciti – felicemente, una volta tanto – dal Nobel per la letteratura cascatogli in mano nel 1990. Il primo anniversario, plumbeo, è il cosiddetto ‘massacro di Tlatelolco’ accaduto il 2 ottobre 1968: il governo messicano, guidato monoliticamente dal PRI (Partido Revolucionario Institucional), spara contro una massa di studenti pacificamente ribelli, ne fa fuori un centinaio. Tra i feriti, c’è Oriana Fallaci, che all’Europeo racconta ‘in presa diretta’, la vergogna di quanto accaduto.
Octavio Paz, nel 1968, è già tra i massimi poeti del suo tempo: trent’anni prima – nel 1937, esattamente – in Spagna, al secondo ‘Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura’, ascolta André Malraux e Tristan Tzara, incontra Hemingway e Auden, chiacchiera con Neruda e diventa amico di Rafael Alberti. Nel 1943 studia negli Stati Uniti, conosce William Carlos Williams e Robert Frost, impara l’arte. Un certa violenza mistica meridiana si fonde in Octavio Paz a un linguaggio d’avanguardia, da sentinella sugli abissi: nel 1956 pubblica un saggio lirico determinante, L’arco e la lira, mentre nel 1967 edita l’opera lirica più estrema, Blanco, dove la lettura si fa esperienza totale (così la descrive Franco Mogni: “una scatola di cartone, su uno dei lati un rettangolo nero con dentro un rettangolo giallo con dentro un rettangolo nero, sull’altro lato un rettangolo bianco con dentro un rettangolo giallo con dentro un rettangolo bianco, e quindi il lungo pieghevole con la sua diversità di caratteri e colori: leggere equivale entrare in un flusso misterico e anche chiudere, piegare una sezione per aprire/aprirsi a una nuova diramazione in un gioco di oltre venti associazioni”).
Viaggiatore culturale instancabile, attratto dall’Oriente, dal 1962 Paz è ambasciatore del suo Paese, il Messico, in India. Ed è lì che gli anniversari si incrociano. Leggendo del massacro di Tlatelolco, Paz si fa da parte, abbandona il ruolo all’ambasciata. La lettera del 4 ottobre 1968, pubblicata nel tomo curato da Ángel Gilberto Adame, Octavio Paz en 1968: el año axial (Taurus, 2018), è definitiva: “Sono in assoluto disaccordo con i metodi usati per risolvere (in verità: reprimere) le domande e i problemi che i nostri giovani hanno portato in piazza.Non si tratta di una rivoluzione sociale, benché molti dei nostri dirigenti siano rivoluzionari radicali, ma di realizzare una riforma del nostro sistema politico”. Qualche giorno dopo il massacro, si aprono, a Città del Messico, i Giochi olimpici: “Questa Olimpiade non è limpida, è gialla, è nera, visto che una nazione intera ne ha vergogna”, dirà il poeta.
La rivelazione, pubblicata su El Pais a firma di Luis Pablo Beauregard e di David Marcial Pérez con il titolo Así espiaba la policía del PRI a Octavio Paz, è che, appunto, Paz, un poeta, era controllato dai servizi segreti del suo Paese. Diverse istituzioni nordamericane (la Northwestern University e il Centre for Research Libraries) e messicane hanno cominciato a digitalizzare i fascicoli della Dirección Federal de Seguridad, l’agenzia di intelligence del PRI, che ha operato fino al 1985. Da lì scopriamo che la prima notizia dei servizi riguardante Paz è datata 1939 – atteggiamenti antifranchisti in un bar di Città del Messico – e si intensifica, va da sé, dopo che Paz lascia l’incarico governativo nel 1968, dandosi all’insegnamento negli Stati Uniti, per poi tornare in Messico nel 1971. Nonostante Paz non sia affatto un animatore poltico, è seguito costantemente dalla polizia segreta, che prende appunti durante le sue conferenze pubbliche – proprio nel 1971, ad esempio, una nota segnala: “parlò dell’esistenza di un dio che ha creato l’uomo per l’uomo, del bene e del male che gli esseri procurano a causa del loro egoismo”, e riguardo alla poesia letta agli astanti sottolinea che “non presentava commenti politici o attacchi all’attuale governo”. Un faldone degli anni Settanta fa il sunto della vita privata di Paz, delle donne amate, dei soldi percepiti come ambasciatore a Nuova Delhi (“nel 1962 il suo stipendio era di 8.383 pesos”): negli anni Ottanta l’attività di spionaggio nei suoi confronti si ammorbidisce, ma “il suo dossier resta aperto, passando da una centrale investigativa all’altra, fino all’anno della morte, nel 1998”.
Il Messico come la Russia, come qualsiasi altro Paese: i poeti, in altri tempi – nei quali una poesia sapeva animare idee e commozioni comuni – erano un problema per l’affarismo politico, per la strategia dell’ignoranza. Anche in questo caso – come nei casi di Mandel’stam e di Iosif Brodskij, i di Visar Zhitiin Albania, di Oscar Hahn in Cile – si colpisce o si spia un poeta che si impegna unicamente in ciò che sa fare, creare una forma bella. Come se la bellezza fosse per sua natura ostile al potere.