CinemaPaolo Virzì vuole rifare Fellini e Sorrentino. E ci propina un film ridicolo e provinciale

L’ultimo film di Paolo Virzì, Notti Magiche, vuole essere un ritratto ironico e irriverente del cinema italiano e delle sue manie, ne critica l'autoreferenzialità ma è a sua volta un monumento al proprio ombelico, una provinciale e ridicola presa per il culo di se stesso

«Sono immagini che non avremmo mai voluto commentare». La voce è quella nasale e mitologiche di Bruno Pizzul, il momento, uno dei più brutti della storia del calcio italiano: la sconfitta, nella semifinale di Italia ‘90, ai rigori. È il 3 luglio del 1990, lo stadio è il San Paolo di Napoli, e dopo un mondiale praticamente mitologico, sugli schermi di tutta Italia appaiono le figure di Roberto Baggio e Franco Baresi. Sono seduti per terra, sconsolati. L’Italia ha perso. Le notti magiche sono finite.

È un’immagine che, chi c’era, non potrà mai dimenticare. Forse ancor di più di quella, anch’essa straziante, di Roberto Baggio che manda in tribuna il suo mondiale, 4 anni dopo. Dieci secondi densi di amarezza per l’occasione della vita buttata la vento; dieci secondi che hanno fatto basculare l’Italia calcistica tra l’olimpo dei più vincenti di tutti i tempi e il tunnel infernale dei perdenti; dieci secondi che il regista toscano prende di peso dalla Storia e butta in mezzo al suo Notti magiche, in uscita nei cinema l’8 novembre, e che dicono tutto anche del suo, di film.

Questo Notti magiche è infatti il più grande monumento possibile all’occasione sprecata. Una didascalica rappresentazione dei limiti dell’Italia post prima Repubblica, costantemente ripiegata su stessa, guidata da una classe dirigente autocompiaciuta di una grandezza che non ha. L’Italia che vive di rendita nella casa dei genitori, che si pasce nella memoria della grandezza del proprio passato, dalla Resistenza alla stagione del grande cinema. Quell’Italia così drammaticamente priva di talento da non accorgersi nemmeno della propria goffa provincialità.

Paolo Virzì ha provato a fare il suo Otto e mezzo e contemporaneamente anche la sua Grande bellezza. Solo che non è né Fellini né Sorrentino e ha toppato alla grande, su tutta la linea e in maniera rocambolesca e penosa, come fanno i bambini maldestri quando si ribaltano insieme alla propria torta di compleanno. Con questo Notti magiche ha cercato di giocare coi generi, come facevano i grandi del nostro cinema, i Monicelli, i Fellini, gli Scola, quelli che lui stesso ha conosciuto, da studente, quando a Roma iniziava a bazzicare il mondo del cinema come le tre macchiette che ha messo in scena in questo film, perdute e innamorate di un mondo che si chiama sempre e solo per nome, ma che è sola e pura decadenza.

Ha giocato coi generi, dicevo, ma ha buttato al cesso tutto, perché questa commedia umana di Virzì non sa di Plauto, sa proprio di cazzata. Perché insieme alla commedia riesce a mandare in vacca anche il noir, suicidatasi al primo ingresso delle forze dell’ordine nel film, ovvero nei primi cinque minuti, coi i soliti Carabinieri che sembrano usciti da una barzelletta, ma che non fanno più ridere dagli anni Cinquanta.

Paolo Virzì ha provato a fare il suo Otto e mezzo e contemporaneamente anche la sua Grande bellezza. Solo che non è né Fellini né Sorrentino e ha toppato alla grande

Notti magiche vorrebbe, nelle parole del regista stesso, intervenuto alla Festa del Cinema di Roma, essere il racconto di un “viaggio trepidante, sentimentale e ironico nello splendore e nelle miserie dell’ultima stagione gloriosa del cinema italiano”. Ma di fatto non ha nulla di trepidante, né di sentimentale, né di veramente ironico, anzi, è la descrizione più esatta della miseria di oggi, quella di un cinema italiano stanco, senza più idee, innamorato del proprio ombelico, che non ha più nulla da dire.

C’è una scena, una sola dove a un certo punto ti viene quasi da pensare che te la stia facendo, che faccia la parte del gonzo per poi calibrarti una patta in faccia che ti ribalta dalla sedia, colpendo al cuore sul serio sia il cinema italiano, sia quelle élite che guardando questo film rideranno a crepapelle senza accorgersi di ridere di se stessi. È il momento in cui Roberto Herlitzka, nei panni di un famoso sceneggiatore, butta fuori uno dei tre protagonisti — il vincitore del premio Solinas, un siciliano ridicolo — dal suo studio incalzandolo con una invettiva che sembra un bellissima stilettata accusatoria contro quel cinema italiano gonfio di se stesso.

Il messaggio del vecchio sceneggiatore, ridotto all’osso, è che avendone piene le balle di gente che si guarda l’ombelico, che si compiace di se stessa, che si crede geniale senza mai aver fatto nulla per esserlo veramente e scrive sceneggiature gonfie di vuoto pneumatico: aprite la finestra e guardate fuori, dice di fronte a una platea di giovani sceneggiatori imbecilli. E lo spettatore quasi ci spera che tutta quella pantomima sia in realtà il gioco al rialzo di un pokerista che vuole lasciarti in mutante. E invece no, perché quando lo vai a vedere fino all’ultima mano Virzì è il gonzo che ha tirato ad alzare il piatto con una coppia svestita.

Guardate fuori dalla finestra. Una frase potente, una critica importante e finalmente vera al cinema italiano. Una frase che diventa persino importante all’interno del film di Virzì, il quale però, non si capisce bene perché, la piazza al centro di un film che è insieme autobiografico e meta-cinematografico, ovvero al più grande monumento al proprio ombelico che potesse fare, che in questo modo si palesa ancora di più per quello che è: una provinciale e ridicola presa per il culo di se stesso. E se questo è il cinema italiano che ha preso il testimone dai Federico, dai Mario e dagli Ettore, le notti magiche sono finite per davvero.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter