StelleCristoforetti: «Al primo decollo ridevamo e ascoltavamo Celentano»

Il racconto del primo decollo di Samantha Cristoforetti tratto dal suo libro “Diario di un’apprendista astronauta”. Un primo viaggio nello spazio che inizia in modo tutt’altro che solenne. Anche perché «prendersi troppo sul serio è considerato un peccato grave tra gli astronauti»

Stasera alle 16, 30, al teatro Franco Parenti di Milano, Samantha Cristoforetti dialogherà con Francesco Cancellato, in apertura del festival GenerAzione

Mancano ormai solo venti minuti e sto facendo un ennesimo giro di verifica dei parametri, quando all’improvviso scoppio a ridere. Una sonora, gustosa risata, scatenata dalla nuova canzone scelta da Anton. Come la maggioranza dei russi della sua età, cresciuti con il Festival di Sanremo trasmesso dalla televisione sovietica, Anton ama la musica di Adriano Celentano. Fin qui nulla di strano, ma l’improbabile coincidenza nella scelta del brano è irresistibilmente divertente. Siamo qui, ermeticamente chiusi in cima a un razzo, con la rampa di lancio ormai evacuata; dopo anni di addestramento, mesi di preparativi, settimane di esami ed eventi formali e giorni di frenesia pre-lancio stiamo finalmente godendoci un momento tutto nostro, irraggiungibili dalle pretese di chicchessia e il mio comandante, senza capire una parola di italiano, ha scelto la canzone che inizia così: “È inutile suonare qui non aprirà nessuno, il mondo l’abbiam chiuso fuori con il suo casino.”

Non è solo Celentano, c’è una certa ilarità nell’aria. Scherziamo come facciamo da sempre, da quando siamo diventati un equipaggio, due anni fa. Ridiamo della scomodità della nostra posizione rannicchiata, certamente più dolorosa per Terry, costretto come me nello spazio angusto di un posto laterale, ma
di corporatura ben più alta e robusta. Ci burliamo del sudoku con cui cerca di distrarsi, ma che non riesce a risolvere. Scherziamo sul nostro scherzare, sul fatto che, a un quarto d’ora dal lancio, non regna a bordo quell’atmosfera solenne che certamente in molti, là fuori, si immaginano. Forse siamo un equipaggio particolarmente irriverente, non lo so. Forse altri equipaggi mostrano in questo momento maggiore gravitas. Forse, ma ne sono
poco convinta. Prendersi troppo sul serio è considerato un peccato grave tra gli astronauti. Lasciarsi scappare un’occasione di sdrammatizzare, un’evidente caduta di stile. A circa dieci minuti dal lancio riceviamo istruzioni di chiudere il casco, e questa semplice azione rimette a fuoco tutta la nostra attenzione.

Dalle viscere del razzo ci arriva un brusco scossone e a mezzanotte, 1 minuto e 14 secondi, esattamente come previsto, 16-3° ci conferma via radio il decollo. “Poechali!”

Abbasso la visiera e uso lo specchietto che ho sull’avambraccio della tuta per assicurarmi che nulla si sia infilato tra le guarnizioni. Verifico nuovamente tutti i sistemi e riempio una tabella che mi sono preparata per catturare lo stato dei parametri principali prima del decollo. Poi giro il libretto delle procedure sulla pagina di lancio e ascesa. A bordo adesso regna il silenzio, interrotto soltanto dopo qualche minuto dalla voce di 16-3° che annuncia, con tono neutro:
“È stato dato il go. Tutto sta andando secondo il piano. Il controllo è a bordo. Trasmetterò l’andamento del lancio via radio.” Anton conferma che noi siamo pronti. A meno di avarie tecniche, questo razzo verrà lanciato tra pochi minuti, che siamo pronti o no, ma mi piace sentirglielo dire, con una voce più decisa di quella abituale, in cui intuisco una mente e uno spirito presenti e vigili. O se non altro così mi sento io, presente e vigile, ogni fibra del mio corpo tesa a percepire il risveglio del razzo, ogni pensiero concentrato nel distillato di vita che si sta consumando in questo scorcio di spazio-tempo, lo spirito quieto e serenamente aperto a quello che succederà nei prossimi nove minuti e nei successivi sei mesi.

Qualche secondo prima del lancio gli annunci via radio si fanno incalzanti. “Zemlja-Bord,” scandisce 16-3°, un modo sintetico di dirci che è stato retratto l’ultimo braccio della rampa di lancio, che l’ultimo cordone ombelicale è ormai reciso. “Pusk,” avviamento. Kerosene e ossigeno liquido cominciano a scorrere verso le camere di combustione. “Zažiganie,” accensione, i propellenti iniziano a bruciare. Da lì è un rapido crescendo di rumore e vibrazioni, mentre i motori vanno a regime. Dalle viscere del razzo ci arriva un brusco scossone e a mezzanotte, 1 minuto e 14 secondi, esattamente come previsto, 16-3° ci conferma via radio il decollo. “Poechali!” Partiamo! grida Anton, come fece a suo tempo Jurij Gagarin, e noi ci uniamo a lui in urla di esultazione. Non so più dove metterla, la mia felicità, è talmente grande da diventare ingombrante. La sento debordare in un sorriso che non saprei spegnere nemmeno se lo volessi. In questa notte perfetta, l’equipaggio Astrej sta lasciando il pianeta.

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