Fahrenheit 11/9 di Michael Moore NON è un film contro Donald Trump

L’attacco di Moore, piuttosto, è a tutta la classe politica Usa, Partito Democratico compreso. E nel film emerge un nuovo tipo di populismo. Non sciovinista ma -sorpresa- socialista

Micheal Moore contro Donald Trump. Il nuovo film di Moore contro Trump. Michael Moore in TrumpLand. Michael Moore v Donald Trump = Stalemate. C’è una piccola ma gigantesca imprecisione in moltissimi dei titoli degli articoli scritti da chi, in questi giorni, sui giornali di tutto il mondo, sta commentando Fahrenheit 11/9, il nuovo lavoro del documentarista americano, premio Oscar per Bowling for Columbine. Piccola e gigantesca, sì, perché questo film non è affatto un film contro Trump.

Se proprio vogliamo identificare un nemico allora è molto più corretto, anche se limitante per la portata politica di questo documentario, individuarlo nei tratti somatici tirati, impacciati e sorridenti di una intera classe politica, quella, sia Democratica che Repubblicana, che negli ultimi 30 anni ha governato a lustri alterni gli Stati Uniti d’America. Quella su cui, nostro malgrado, si è costruita come allo specchio, anche la nostra: impreparata, superficiale, e per questo pericolosa.

Ci sono tante scene in questo documentario in cui questo nemico prende forma: c’è la scena in cui nella stanza Ovale gli ultimi cinque presidenti si mettono in posa per i fotografi, tutti con lo stesso sorriso gigante che di solito nei film hanno i complici di una rapina. Ci sono le immagini di un Obama che arriva da salvatore chiamato a gran voce dai cittadini di Flint, Michigan, avvelenati da scelte criminali del loro governatore, ma che, dopo una scenetta da teatro volta solo a rinforzare il potere che sta uccidendo la città, se ne va verso il tramonto a braccetto con i cattivi che avrebbe dovuto combattere.

O ancora, c’è l’immagine di Hillary Clinton al concerto di Beyoncé che dal palco, ringraziando il rapper il cui nome ha studiato a memoria poco prima di salire, sorride come a dire: ma quanto sono figa e quanto sono forte. Salvo che alle elezioni mancavano ancora settimane. Settimane in cui, mentre noi giornalisti in tutto il mondo raccontavamo di un Paese che si stava pregustando coi popcorn in mano l’ascesa al potere della sua prima donna Presidente, l’America quella vera non stava sognando più da qualche anno. Con buona pace delle Hillary Clinton, dei Barak Obama e degli altri sorridenti leader democratici che non avevano nessuna intenzione di accorgersene.

Se proprio vogliamo identificare un nemico allora è molto più corretto, anche se limitante per la portata politica di questo documentario, individuarlo nei tratti somatici tirati, impacciati e sorridenti di una intera classe politica, quella sia Democratica che Repubblicana

La potenza dello sguardo di Michael Moore, però, non è nemmeno per un istante semplicemente quella di chi indica con il ditino i cattivi. La potenza di Michael Moore — che non a caso fu il solo commentatore della politica americana a scrivere settimane prima del voto che non sarebbe stata certo Hillary Clinton la nuova presidentessa degli Stati Uniti d’America — è nel fare cenno alla camera di guardare poco sotto quei volti sorridenti, giusto qualche centimetro, quelli che bastano per inquadrare le facce di un’altra generazione: quella che manderà in pensione questi fantocci. Quella che lo sa.

Lo sguardo positivo della telecamera di Michael Moore, che ritrova lo splendore di quel Bowling for Columbine che gli era valso l’Oscar nel 1999, racconta i volti della nuova resistenza statunitense, volti sorridenti anche quelli, ma a ragion veduta: in maggioranza donne, in maggioranza giovani, in maggioranza non bianche come i colletti di quelli che gli hanno venduto la terra sotto i piedi.

«Quando ho visto che nel mio collegio non c’era nessuno che si candidava ho pensato che dovevo farlo io», dice Alexandra Ocasio-Cortez, 29 anni, del Bronx, che dopo una campagna in cui si è consumata sul serio le suole delle scarpe — alla faccia di chi pensa che fosse una prerogativa di chi è nato senza cellulare in mano — è stata veramente eletta alla Camera alle elezioni di mid-term di metà settembre. «Abbiamo già vinto, è solo questione di tempo», dice uno dei ragazzi sopravvissuti alla strage di Parkland, centinaia di “bamboccioni con il cellulare” che dopo un anno di lotte, proteste, marce, sono riusciti a far traballare il potere di alcuni vecchi tromboni repubblicani stipendiati dalla NRA e dalla lobby delle armi. È cominciata la rivoluzione, dunque?

Il messaggio che emerge dal documentario di Michael Moore è che la rivoluzione è già qui. Ha i volti di ragazzini i cui nomi sono meno importanti di quello che dicono

No, il messaggio che emerge dal documentario di Michael Moore è che la rivoluzione è già qui. Ha i volti di ragazzini i cui nomi sono meno importanti di quello che dicono. Quelli di giovani donne che hanno trovato il coraggio di alzarsi durante un comizio razzista di Donald Trump per rappresentare, con le loro voci e coi loro corpi, che quello è il passato, non il futuro. Hanno i volti di migliaia di persone che, ignorate da generazioni di politici, ora si ritrovano con le spalle al muro. E reagiscono.

«The dinosaurs will slowly die and I do believe no one will cry. I’m just fucking glad I’m gonna be there to watch the fall», cantava un gruppo punk californiano una quindicina di anni fa, parlando esattamente della stessa classe politica e dirigenziale di cui ora stiamo tutti pagando la dabbenaggine, l’impreparazione, la connivenza.

“I dinosauri moriranno lentamente e io credo che nessuno li piangerà. Io sono soltanto fottutamente contento di essere qui, a osservarne la caduta”. C’è una cosa sola che i Nofx hanno sbagliato: i dinosauri non muoiono più lentamente, l’agonia è arrivata alla fine. E la rivoluzione non sta per arrivare, è già qui e non ha i volti grotteschi dei Di Maio, dei Salvini, dei Di Battista. Perché è vero, il vento populismo si sta alzando in tutto il mondo, ma il populismo che cambierà la politica in tutto il mondo non sta arrivando dall’ignoranza pentastellata e nemmeno dall’arroganza leghista. Il vero populismo americano ha studiato, è preparatissimo. Ed è socialista.

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