Tutto cambia, il sistema si sfarina, i populisti gialli e verdi prendono il potere, gli azzurri languono e i rossi piangono. Ma il risiko del capitalismo italiano ruota ancora per buona parte attorno a Silvio Berlusconi. Il ribaltone al vertice di Tim lo dimostra.
Il primo colpo è venuto a maggio con l’ingresso in campo di Elliott, il fondo attivista americano, lo stesso che ha preso il controllo del Milan già berlusconiano ed è rappresentato in Italia da Paolo Scaroni (è anche presidente della squadra di calcio ed è stato al vertice di Enel ed Eni su nomina del governo Berlusconi). Accanto a lui s’è schierata la Cassa depositi e prestiti per conto del governo. Insieme hanno stoppato la Vivendi di Vincent Bolloré, maggior azionista di Tim con il 24%, poi hanno rovesciato gli equilibri e messo in minoranza i francesi. In una prima fase hanno confermato Amos Genish l’amministratore delegato scelto da Vivendi, ma tutti hanno capito che sarebbe caduto come le foglie in autunno. E così è stato. Da notare che il presidente di Tim, nominato il 7 maggio, dopo il putsch, è Fulvio Conti già vice di Scaroni all’Enel e poi suo successore.
Come capo azienda è stato scelto Luigi Gubitosi che, grazie alla sua ampia ragnatela politico-finanziaria, garantisce anche il governo. Appena insediatosi, ieri mattina, ha subito annunciato che lui sta lì per scorporare la rete e farla confluire in una futura società a partecipazione statale, modello Terna, insieme a Open fiber (joint venture tra Enel e Cdp sponsorizzata da Matteo Renzi in funzione anti Bolloré). È un vecchio tormentone che risale addirittura a dieci anni fa e al secondo governo Prodi, al quale sono affezionati anche Di Maio & C. (che sta per Casaleggio).
Bene, ma che c’entra Berlusconi? C’entra eccome, sia in quanto politico, sia nella veste di imprenditore. E, di nuovo, i due profili o mestieri che dir si voglia, s’incrociano, anzi si sovrappongono.
Il leader di quel che resta degli azzurri è stato messo in un angolo da Matteo Salvini. il quale ha fatto balenare in vari modi che i tetti pubblicitari evocati, anzi proposti, dal M5S, metterebbero in crisi Mediaset. Berlusconi faccia pure l’opposizione, ma non tiri la corda fino al punto da provocare la caduta del Governo. Una minaccia da prendere sul serio
Il leader di quel che resta degli azzurri (il colore di Forza Italia) è stato messo in un angolo da Matteo Salvini il quale ha fatto balenare in vari modi che i tetti pubblicitari evocati, anzi proposti, dal M5S, metterebbero in crisi Mediaset che si è ripresa dalla brutta caduta del 2016, ma viaggia sempre appesa al filo degli spot. In sostanza, Berlusconi faccia pure l’opposizione, ma non tiri la corda fino al punto da provocare la caduta del Governo. Una minaccia da prendere sul serio, tanto che Mediaset ha sì cambiato il palinsesto di Rete4 che per lungo tempo ha tirato la volata ai populisti, ma non tanto da trasformarla in una spina nel fianco (l’unico davvero pugnace è Il Giornale).
C’è un solo modo per sganciarsi da questa morsa: trovare un buon partito per Mediaset, la bella addormentata. Berlusconi per la verità ci pensa da anni, voleva già andare a nozze con Rupert Murdoch nel lontano 1999 e non ha funzionato. Poi c’è stata una nuova triangolazione nel 2006 ai tempi del piano Rovati per lo scorporo della rete. Ad un certo punto, sembrava che Vivendi fosse il partner giusto, senonché l’amico Bolloré ha pugnalato Berlusconi alle spalle, dopo essersi sentito imbrogliato dal tentativo di scaricargli il pacco chiamato Mediaset Premium finito poi a Sky che, nelle mani del gruppo americano Comcast, non si sa che cosa diventerà.
Dunque, rimangono in campo due ipotesi: o ingoiare il rospo e riprendere il dialogo con Bolloré o far buon viso al cattivo gioco del governo e puntare su Tim. In un caso e nell’altro, lo scorporo della rete fissa diventa una mossa propedeutica. La nuova Tim sgravata da quella parte del debito (ammonta in tutto a 26 miliardi pari a tre volte gli utili con un rating junk) che verrebbe assorbita dalla nuova società pubblica, diventa un produttore e distributore di servizi, quindi pronto a stringere accordi (financo matrimoni) con la televisione in nome della convergenza che tutti inseguono, ma che, finora, non si è mai realizzata in Europa.
Mediaset più Tim sarebbe meglio di Mediaset più Vivendi? Politicamente sì, perché il nuovo vento sovranista potrebbe nominarlo campione nazionale contro i giganti stranieri. Dal punto di vista industriale no, proprio perché i media, l’infotainmet, le telecomunicazioni, ormai sono mestieri che possono reggersi solo se non hanno confini. Lo dimostra Netflix, ma anche la stessa Vivendi. Il gruppo transalpino fa i soldi con la musica Universal (americana ma universale lo dice la parola stessa), mentre continua ad andare male tutto ciò che resta sostanzialmente franco-francese come Canal Plus. Bolloré nello scalare Mediaset aveva annunciato di voler costruire una Netflix europea. Slogan ripetuto anche da Di Maio & C. Ma si tratta, per il momento, solo di parole.
L’operazione Tim, affidando allo stato l’intera rete fissa, crea un monopolio pubblico. Se il nuovo assetto sarà un bene per gli utenti è tutto da vedere, dipende dalle condizioni che il governo imporrà per collegarsi alla rete. Occorre un calcolo costi e benefici, ci penserà Danilo Toninelli, il ministro per le infrastrutture; come con la Tav
Berlusconi si sentirebbe senza dubbio più garantito da una soluzione italica: pur restando dipendente dai capricci giallo-verdi, Fininvest continuerebbe ad avere un ruolo rilevante, anche se non la guida dell’intesa, perché anche una Tim leggera avrebbe comunque un valore borsistico superiore (oggi vale 11,16 miliardi contro 2,94). Non solo. Tim dovrebbe ristrutturarsi, il che richiede tempo e denaro, e resta una bella scommessa. Quanto a Mediaset, non ridurrebbe certo la sua dipendenza dagli introiti pubblicitari che fanno la gran parte del fatturato: 1,458 miliardi di euro su 1,737 in Italia nei primi nove mesi di quest’anno con un Ebitda di 473,9 milioni. Mentre il nuovo gruppo si caricherebbe di debiti (oggi quelli di Mediaset superano di poco il miliardo di euro). In ogni caso, sono due società che gestiscono servizi in concessione e possono essere sempre rimesse in discussione se non espropriate (la vicenda Autostrade-Benetton insegna).
Come uscire da questa trappola? Con “la prossima rivoluzione capitalista” che campeggia sulla copertina dell’Economist? E’ una rivoluzione che fa perno sulla libera concorrenza, spezzando se necessario i monopoli, riducendo profitti abnormi dovuti a posizioni dominanti, e “assicurando che l’innovazione possa di nuovo prosperare”. Ma l’Italia va controcorrente, perché l’operazione Tim, affidando allo stato l’intera rete fissa, crea un monopolio pubblico, quindi non sembra corrispondere ai criteri del settimanale britannico. Se il nuovo assetto sarà un bene per gli utenti è tutto da vedere, dipende dalle condizioni che il governo imporrà per collegarsi alla rete. Occorre un calcolo costi e benefici, ci penserà Danilo Toninelli, il ministro per le infrastrutture; come con la Tav.