La partita dell’occupazione femminile, intrinsecamente legata al tema della maternità – anche se, certamente, non tutte le donne diventano o vogliono diventare madri – si gioca su più fronti. Gli asili nido, certo. I servizi a misura di bambini, certo. Gli sgravi fiscali per le famiglie con figli a carico, certo. Ma la partita non si può vincere senza ripensare, anzi rivoluzionare gli equilibri attuali, la confezione stereotipata della coppia e della famiglia. Non si può raggiungere un risultato rilevante se non si portano a bordo gli uomini, se non si sostituisce al concetto di maternità quello di genitorialità.
Sparigliamo le carte. Permettiamo ai papà di entrare a pieno titolo nella partita della cura dei figli. Usciamo dal paradigma che dei figli se ne occupa solo la madre, paradigma che irrimediabilmente si é trasformato in una gabbia, uno stigma, un formidabile disincentivo e alibi per i datori di lavoro. Non la assumo anche se é brava, anche se è preparata, anche se è la candidata migliore: non la assumo perché ha vent’anni, trent’anni, quarant’anni (l’età è a piacere, fintanto che le ovaie funzionano). Perché potrebbe fare un figlio, e poi starmi assente per il congedo obbligatorio di maternità, e poi magari anche quello facoltativo, e poi farmi l’orario ridotto per l’allattamento, e poi stare assente a sorpresa perché il figlio magari si ammala.
Le donne italiane si ribellano a questa situazione, qualche volta. Spesso però la strategia scelta per la ribellione è un’arma a doppio taglio, un autogol masochista: mettere in freezer il desiderio di maternità per costruirsi una carriera, assicurare al datore di lavoro che no, non c’è problema, i figli non ci sono, non interferiranno.
Più spesso le donne subiscono. Il figlio lo fanno, prima o dopo – un figlio virgola ventiquattro, di media, per le cittadine italiane; uno virgola trentadue se si contano anche le madri di altra nazionalità. Drammaticamente pochi, ma abbastanza per patirne spesso le conseguenze sul lavoro. Demansionamenti, mobbing, pressioni psicologiche per indurre alle dimissioni; e poi ancora part-time agognati e negati, smart working ancora troppo poco diffuso. E un’organizzazione aziendale ancora oggi tutta modellata su ritmi e orari ”maschili”.
In questo quadro, gli uomini restano perlopiù sullo sfondo. Come se fossero chiamati ad assolvere solo due compiti, assicurare lo spermatozoo e lo stipendio alla fine del mese. Da una parte ciò significa che scampano al destino delle loro compagne, mogli, amiche e sorelle: non vengono discriminati sul lavoro perché hanno figli, nè perché potenzialmente potrebbero averne. Non subiscono ripercussioni dirette.
Ma – ci sono dei ma.
Anche gli uomini di solito vogliono un figlio. Si chiama desiderio di paternità e, benché nella maggior parte dei casi sia più ”soffuso”, e non dettato dal ticchettio del cosiddetto orologio biologico che invece tormenta la maggior parte delle donne, esiste e si fa sentire. Dunque il primo ”ma” é che senza una compagna questo desiderio resta irrealizzabile (tralasciamo qui, per semplicità, il discorso delle famiglie omogenitoriali).
Il secondo “ma” é che lo scarso livello di occupazione femminile (sia in termini quantitativi – la percentuale di occupazione femminile è ferma al di sotto del 50%, venti punti percentuali al di sotto di quel che dovrebbe essere, sia in termini qualitativi – i livelli retributivi, le prospettive di carriera) nuoce a tutta la società italiana. Dunque anche ai maschi. Uno potrebbe dire: ma no, se lavorano meno donne c’è più lavoro per gli uomini. Non è proprio così, invece. Un mercato del lavoro più dinamico e inclusivo giova a tutti. E contrastare lo stereotipo che da millenni impone all’uomo il ruolo di ”breadwinner”, di colui che deve portare il pane a casa, libererebbe molti dall’ansia da prestazione.
Infine, gli uomini di oggi sono diversi rispetto alla maggior parte dei loro padri, dei loro nonni. Sono cresciuti in una società in evoluzione, che in poco più di mezzo secolo ha profondamente trasformato il ruolo delle donne. Che oggi sono istruite. Sanamente ambiziose. Sessualmente liberate, perfino. E allora qual è il ruolo degli uomini, in relazione a queste nuove donne? Qualcuno ne è impaurito, certo. Ma la maggior parte dei nuovi uomini cerca un rapporto paritario. Una condivisione di obiettivi, aspirazioni e responsabilità. E questo comprende anche la responsabilità dei figli: non solo di farli, ma anche di crescerli.
Il terzo ma, il meno indagato ma forse più importante, è dunque che gli uomini stessi vogliono l’opportunità di essere padri in un modo più profondo, pieno. Vogliono avere l’opportunità di immergersi nei loro figli neonati, seguire il loro sviluppo, essere co-responsabili insieme alle madri.
Per tutti questi motivi è essenziale che il congedo obbligatorio di paternità continui a esistere, e anzi, che venga rafforzato e allungato. E dunque bisogna assolutamente sventare il rischio che i risultati faticosamente raggiunti in italia dal 2012 ad oggi, con l’introduzione di un congedo di paternità obbligatorio che, cominciato con un solo giorno, è arrivato ora a quattro giorni (più uno facoltativo da ”sottrarre” eventualmente ai 5 mesi del congedo di maternità), vengano gettati al vento.
Perché il rischio insito nella legge di bilancio in fieri, che proprio in questi giorni é nel pieno della discussione in Parlamento, è che il congedo di paternità venga abolito. La misura infatti era sperimentale e risulta finanziata solo fino a fine 2018 (l’anno scorso ne hanno usufruito oltre 100mila neopapà): dal 1’ gennaio 2019 dunque, se non si farà qualcosa, esso sparirà dall’orizzonte, e i neopapà italiani non avranno più diritto nemmeno a un giorno di congedo.
Il pericolo deve essere sventato, non si possono fare passi indietro su questo fronte così importante. Ogni giorno di congedo di paternità, come attesta la Ragioneria dello Stato, costa 10 milioni di euro. Stiamo parlando dunque di una cifra assolutamente contenuta: soltanto poco più di 40 milioni di euro all’anno per tenerlo così com’è. 100 in caso si riuscisse invece a fare un passo avanti, e portare la durata del congedo obbligatorio di paternità a 10 giorni.
Sono cifre fattibili, fondi che si possono trovare nel bilancio dello Stato. Basta averne la volontà. C’è una petizione su Progressi.it intitolata ”Avanti con il congedo di paternità”, che a oggi ha ricevuto il sostegno di quasi 10mila sottoscrittori (se non l’avete ancora fatto, firmatela!). La petizione è stata presentata nelle scorse settimane al presidente della Camera Roberto Fico e ieri anche alla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, ed entrambi si sono dimostrati attenti al tema e concordi nel riconoscere che il congedo di paternità sia un elemento importante di civiltà, da salvaguardare. Ed è proprio di ieri sera la notizia che alla Camera è stato presentato un emendamento alla manovra, riformulato dai relatori e approvato in commissione Bilancio, che prevede una proroga del congedo di paternità nel 2019, con una estensione da 4 a 5 giorni.
L’obiettivo di sventare il pericolo della cancellazione appare più vicino, ma non ancora sicuro. Portando il massimo sostegno possibile alla petizione, sarà chiaro al mondo politico che i cittadini questo congedo lo considerano importante.