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Ovviamente, lasciate in cantina il titolo dell’articolo: quando il talento è solido, ogni esagerazione è lecita.
La storia di Natale (definiamola così) ha un nome antico. Cleide – che forse, maneggiando l’etimologia, significa ‘gloria’ – è il nome della mamma di Saffo, e della figlia (“Io però per te, Cleide, non ho/ la mitra ornata – come potrei?” canta la poetessa nel frammento 98 V. del canzoniere della grande poetessa). Cleide, oggi, mi è incontro con un sorriso che ha candore, con una serenità che non cela, nel fondo, una vita di dolori, di privazioni. La vita – accade a tanti – ha ammutolito il talento di Cleide; ma, si sa, si è scrittori per sempre, anche quando non si scrive, nel modo di costellare le dita sopra il canino dei decenni, nella forma dello sguardo. Cleide è nata nel 1940 e i suoi occhi sono covi di fiamme: esordisce tardi, nel 1999, con Camionabile Scutari e il suo talento appare immediatamente lucido, risolto. Il suo libro più vasto, per concezione storica e strategia narrativa, è il romanzo dedicato alla vita di Dolcino, il predicatore mandato al rogo e citato da Dante, Di’ a Fra Dolcin che s’armi (2012), che divenne un piccolo caso letterario.
Quando l’ho incontrata, dico, mi è stato chiaro che Cleide scrive mentre ti guarda. Il suo talento è la pazienza – arte antica nel tessere le storie mentre trascolora il fuoco, mescolando pietre, stelle, forgiando alfabeti radi – e una perizia narrativa aliena al vortice dell’era presente, mi ricorda Eliana Bouchard, per dire una scrittrice di oggi, e con dovuto rispetto le memorie smaliziate di Marguerite Yourcenar. Insomma, da quando ho incontrato Cleide, che di cognome fa Bartolotti, è nata a Domodossola ma ha vissuto – e vive – a Modena, mi sono detto, questa signora è tra i grandi narratori di oggi. Che pochi lo sappiano, è il sigillo della sua grandezza.