Le ragioni della resaPrigionieri dei sondaggi: ecco perché Lega e Cinque Stelle hanno rinunciato alla guerra all’Europa

Non è stato Juncker, né i mercati: alla fine, Salvini e Di Maio si sono convinti a cedere con l’Europa perché era questo chiedeva l’opinione pubblica. È il limite dei populisti: condannati a seguire i sondaggi, non avranno mai il coraggio di provare a cambiarli

“Un leader vero non insegue i sondaggi, ma li cambia”. Lo ripeteva come un mantra un giovane Matteo Renzi, nel 2012, candidato alla leadership del centrosinistra contro Pierluigi Bersani.
Non si può dire che Salvini e Di Maio non abbiano inizialmente provato a fare altrettanto: forti di numeri di consenso importanti (in particolar modo il leader leghista), sono andati avanti per mesi nella loro strada sulla manovra economica, nonostante gli stessi sondaggi sottolineassero forti dubbi degli italiani a proposito delle scelte economiche governative.

Alla fine, però, hanno dovuto cedere.
Hanno accettato di fare un passo indietro, stretti dalla morsa imposta dal rigore europeo, da un lato, e dagli scetticismi degli elettori dall’altro: gli italiani contrari alla manovra, nell’ultima rilevazione Swg, toccano il 53%, mentre per la rilevazione Quorum/YouTrend per Sky solo il 39% approva l’operato del Governo Conte.

Salvini e Di Maio hanno ceduto di fronte al peso dei sondaggi e dei rischi economici, dopo essersi trovati in una classica situazione lose/lose: andando avanti, il loro consenso sarebbe nettamente calato, così come successe a Prodi nel 2006 e a Monti nel 2011

I populisti necessitano di alcuni elementi per portare avanti le proprie scelte: tra questi, un nemico esterno, un’impronta leaderistica, una semplificazione dei problemi, e un consenso popolare vasto su cui poggiare. Se viene mano il consenso “del popolo”, rischia di venir meno il cardine della retorica e della narrazione populista.
Quello dei giorni scorsi è stato il primo, grande, dietrofront del Governo, e per la coppia Di Maio/Salvini si tratta di una evidente sconfitta. Hanno perso il braccio di ferro con l’Europa, che è stata indirettamente sostenuta in questa sfida in punta di fioretto dagli orientamenti degli italiani che tanto la criticano.

Salvini e Di Maio hanno ceduto di fronte al peso dei sondaggi e dei rischi economici, dopo essersi trovati in una classica situazione lose/lose: andando avanti, il loro consenso sarebbe nettamente calato, così come successe a Prodi nel 2006 e a Monti nel 2011, crollati nell’opinione pubblica dopo manovre sgradite ai cittadini; facendo un passo indietro, come hanno fatto, sono sembrati sconfitti.
Se Di Maio è già sceso negli indici di gradimento, Salvini è quello che ha più da perdere: è il politico più amato e, giunto a questi livelli, basta poco per calare.

Un leader populista dunque non può permettersi di investire troppo su progetti a lungo termine per “cambiare” i sondaggi e invertire i trend, ma è destinato a seguirli, fino in fondo. Muovendosi con estrema rapidità, assecondando le oscillazioni del sempre più fluido clima d’opinione.

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