Roma di Alfonso Cuaron è un film che ha fatto saltare sulla sedia i critici, ma che probabilmente fa bene soltanto all’ego di chi l’ha scritto, di chi l’ha sceneggiato, di chi la girato, di chi l’ha montato e di chi l’ha prodotto, ovvero, dello stesso Alfonso Cuaron. Ma al mondo del cinema, quello fatto oltre che da chi i film li fa anche da chi i film li guarda, in fondo, potrebbe persino fare male.
E non soltanto perché sotto la fotografia in bianco nero, che sembra perfetta, probabilmente serve solo a ovviare al fatto che il direttore della fotografia non poteva perché aveva judo; né perché, dietro ai suoi movimenti di camera liquidi, ai suoi piani sequenza infiniti e a una narrativa sfilacciata, pare nascondere il vuoto. E nemmeno perché, come ha scritto qualcuno, il personaggio centrale è, come effettivamente è, una tranquillizzante versione dei poveri vista dagli occhi di un borghese.
Roma non fa bene al cinema perché è un film come la Corazzata Potemkin parodizzata da L’ultimo tragico Fantozzi: ci piace solo perché pensiamo di debba piacere. Ci piace perché piace ai critici, a quelli che hanno gusto, a quelli che danno i premi. Ci piace perché ci rassicura nel nostro didascalico provincialismo borghese, come ci rassicura il fatto che il bianco e nero basti a fare un ricordo, che una tata india basti a raccontare il disagio di essere minoranza e che un piano sequenza basti a fare un capolavoro.
Ci piace perché abbiamo paura di dire che non ci piace. Perché abbiamo timore di confessare che ci cala la palpebra già dai titoli di testa, quando per lunghi e tantalici minuti ci cola davanti una secchiata d’acqua in cui si vede passare riflesso un aereo, lo stesso che poi passa altre due o tre volte durante il film, che riappare in un tavolo di cucina incasinato durante una cena, e chissà in quanti altri momenti, a segnalarci che siamo solo di passaggio, forse, oppure, chi lo sa, anche solo perché al Cuaron bambino piacevano un sacco gli aerei.
Roma è, o vorrebbe essere, secondo lo stesso Cuaron, «un’esplorazione della gerarchia sociale del Messico, paese in cui classe ed etnia sono stati finora intrecciati in modo perverso. Soprattutto, è un ritratto intimo delle donne che mi hanno cresciuto, in riconoscimento al fatto che l’amore è un mistero che trascende spazio, memoria e tempo», e invece, malgrado gli sforzi non riesce ad essere più di un esercizio estetico. Un esercizio futile.
È più facile identificarsi nel cane che salta senza posa contro la porta chiusa pur sapendo che nessuno passerà ad aprirla piuttosto che nella povera tata, Cleo
Forse abbiamo paura di ammetterlo, ma è più facile identificarsi nel cane che salta senza posa contro la porta chiusa del palazzo della famiglia protagonista, quel cane di cui la tata raccoglie paziente le feci dal corridoio, quel cane che impazzisce sapendo che nessuno passerà ad aprirgliela, quella porta. È più facile identificarsi in lui piuttosto che nella povera tata, Cleo, centro nevralgico del film, baricentro della sfiga del mondo e insieme Giobbe al femminile, unica protettrice del focolare domestico semidistrutto della famiglia borghese di cui è bambinaia, che si disgrega a causa di un padre che scappa ad Acapulco con l’amante mentre il Messico è in fiamme.
Nonostante i supposti sforzi del regista, infatti, della povera Cleo in fondo ce ne frega ben poco per tutto il film. E non siamo dei mostri, è solo che Cuaron ce ne tiene lontano con la sua regia. Ci interessa giusto poco di più che del suo grottesco amante con la faccia da pesce lesso che gioca a fare il miliziano Karate Kid o dell’altro scappato di casa vestito da clown che a un certo punto cerca di convincere un plotone di ragazzini a tenere la figura dell’albero con gli occhi chiusi. Ci passa davanti agli occhi, trascorre come ognuno dei personaggi, dei luoghi e degli oggetti a cui Cuaron passa davanti con i suoi piani sequenza.
Non ci scalda il cuore — ed è un record mondiale — nemmeno durante il tragico parto, uno dei due apici drammatici del film insieme alla scena dell’Oceano. Un parto tra l’altro causato dal grottesco sincronismo (forse anche lo sceneggiatore c’aveva judo) tra lo shock provato dalla povera Cleo nell’assistere a un omicidio davanti ai propri occhi e l’essere minacciata con una pistola puntata in faccia da quello che in teoria doveva essere il padre, l’artista marziale di cui sopra, il tutto proprio mentre stava scegliendo insieme alla nonna della famiglia per cui lavora una culla per la nascitura.
Niente. Tutto piatto. Non ci tocca nemmeno nel finale sulla spiaggia. Non ci tange, mai. E non, ripeto, perché siamo brutte persone, ma perché lo sguardo cinematografico di Cuaron, che ne I figli degli uomini era riuscito a buttarci nella mischia, questa volta ci fa assistere a tutto da un punto di vista gelido, freddo, impostato come lo sguardo annoiato di un bambino borghese che guarda dalla finestra lo scontro sociale che dilania il suo paese. Finto come un piano sequenza che ruota stancamente sul proprio asse, a mezz’aria, sulle scale. Banale come lo sguardo in un’intera famiglia che fissa in macchina fingendo di fissare la televisione.
E in questi dettagli che il regista vorrebbe curati, ma che sono solo buone cose di pessimo gusto, che Roma è un film freddo e sostanzialmente brutto. Gelido e finto come un bambolotto. Un film lento che, a differenza di capolavori come Hateful Eight o C’era una volta in America la cui lentezza è puro tritolo, non sa nemmeno usare il ritmo compassato che vorrebbe creare. Lo spreca, indugiando su piani che al limite starebbero bene appesi a qualche parete per una mostra fotografica, ma che, usati come sono usati, compiono il peggiore dei reati della narrativa: ammorbano senza aggiungere nulla, anzi, facendo affogare la disgrazia della povera Cloe in un manierismo che uccide tutto il possibile interesse del personaggio.
Roma è stato incensato anche per il fatto che sia distribuito da Netflix. Per questo, come ha detto anche Cuaron, arriverà a molte più persone rispetto a quelle — poche — che avrebbe raggiunto stando nelle sale restano, come sarebbe restato, poco più di tre giorni. Ma anche questo, purtroppo, è un danno. Perché sperare che tutti quelli che hanno Netflix — milioni di persone — possano assistere a un film del genere è un anatema contro il cinema. Perché Roma, se proprio te lo vuoi far piacere, te lo puoi godere soltanto se hai il privilegio di vedertelo in un cinema, a qualche festival, e se magari hai l’ancora più grande privilegio di sentire il regista alla conferenza stampa che, come le battute peggiori, te lo spiega. Ma se lo vedi, come capiterà a moltissimi, in uno schermo di un laptop di 13 pollici rigato dagli anni e con l’audio che ricorda il vivavoce del telefono, sarà solo un film che detesti.