Il mitico scienziatoL’infanzia di Einstein, raccontata da chi l’ha incontrato (anche solo per un attimo)

Il grande scienziato non ha bisogno di presentazioni. Ma forse non tutti ne conoscono la storia a fondo: tra formule e aneddoti, ecco il suo ritratto più accurato nell'opera di Jeremy Bernstein, noto fisico americano, che una volta lo incontrò davvero

Albert Einstein è una delle figure più emblematiche del nostro tempo. Dopo più di cinquant’anni dalla sua scomparsa, le sue scoperte vengono considerate da molti la più audace avventura intrapresa dall’uomo con le sole risorse dell’intelligenza. Il ritratto che prende forma nelle pagine di Bernstein è estremamente vivido, mentre il grande scienziato si rivela ai nostri occhi anche come uomo: timido e trasognato, ma anche risoluto nella convinzione della validità delle proprie scoperte.

Jeremy Bernstein è professore di fisica presso la Rockefeller University e responsabile dell’Aspen Center for Physics. Collaboratore della prestigiosa rivista New Yorker, è autore di numerose pubblicazioni di divulgazione scientifica.

Il giovane Einstein, capitolo primo di L’uomo senza frontiere. Vita e scoperte di Albert Einstein (Il Saggiatore)

1. Il giovane Einstein

Albert Einstein nacque il 14 marzo 1879 nella città di Ulm, nella Germania meridionale, ai piedi delle Alpi Sveve. La sua casa natale, al 135 di Bahnhofstrasse, fu distrutta da un bombardamento durante la Seconda guerra mondiale. I genitori, Hermann e Pauline Koch Einstein, erano entrambi ebrei, sebbene non rigorosamente osservanti. La stessa scelta di due nomi tedeschi per il figlio, Albert, e la figlia nata due anni dopo, Maria, anziché di tradizionali nomi biblici come per esempio Aaron e Miriam, rivela come si fossero allontanati dall’ebraismo ortodosso. Tuttavia sul certificato di nascita di Albert era riportata l’appartenenza religiosa della famiglia, «israelita», e alla luce di questo fatto è interessante chiedersi che cosa avrebbe potuto significare, per la storia della scienza moderna, se Einstein fosse nato mezzo secolo prima o dopo nella stessa città tedesca.

Prima del 1871, infatti, gli ebrei non erano considerati cittadini a pieno titolo e non avevano diritti e possibilità di carriera uguali a quelli degli altri tedeschi. Fino a qualche decennio prima erano stati costretti a vivere nei ghetti e spesso veniva loro imposto di portare una speciale fascia gialla, pratica che venne riesumata dai nazisti circa cinquant’anni dopo la nascita di Albert. Non era loro permesso frequentare l’università e potevano esercitare solo un numero molto limitato di professioni; perciò se un uomo con le capacità di Einstein fosse nato in un ghetto in quegli anni, sarebbe passato inosservato oppure sarebbe stato avviato agli studi di dottrina sacra. Prima della metà del XIX secolo, in Europa non vi furono praticamente scienziati ebrei la cui opera sia ampiamente riconosciuta; di conseguenza, non sorprende che non si abbia notizia, né nella famiglia paterna di Einstein né in quella materna, di qualcuno che avesse mostrato doti scientifiche fuori dall’ordinario.

Ma naturalmente è anche vero che, se Einstein fosse venuto al mondo cinquant’anni dopo, la sua nascita sarebbe coincisa con l’ascesa del nazismo, e se non fosse stato uno di quei pochi ebrei che ebbero la fortuna di emigrare, sarebbe morto in un campo di concentramento. Comunque, Einstein fu costretto a lasciare definitivamente la Germania nel 1933.

A parte le questioni politiche, essere nato nel 1879 significava avere vent’anni a fine secolo, cioè proprio quando la tradizionale fisica «classica» di Isaac Newton e dei suoi successori stava per crollare. Ci voleva una rivoluzione per rimettere in sesto la fisica, e di solito le rivoluzioni – soprattutto in fisica – sono fatte da persone sotto i trent’anni. Einstein, insomma, aveva proprio l’età giusta per osservare la situazione con occhi nuovi. Non era legato alla tradizione.

Quando era già famoso, sua sorella Maria, detta Maja, che gli era molto legata, scrisse un breve ritratto del fratello, rievocando l’Albert bambino dei suoi ricordi d’infanzia. Maja rammentava che ogni tanto Albert aveva accessi di rabbia durante i quali «diventava pallido in faccia, la punta del naso gli si sbiancava, e non si controllava più». Tutti concordano sul fatto che Einstein cominciò a parlare molto tardi; quando era già avanti negli anni, ricordando questo particolare, raccontò a uno dei suoi assistenti che a due o tre anni di età si era messo in testa di dire solo frasi complete, e prima di pronunciarle ad alta voce si esercitava in silenzio finché era sicuro di saperle bene. Sicuramente sono pochissime le persone che si ricordano di come hanno imparato a parlare; ma quando Einstein, da adulto, venne universalmente riconosciuto come lo scienziato più geniale dai tempi di Newton, gli domandavano talmente spesso in che cosa differissero i suoi processi mentali da quelli della maggior parte della gente che sicuramente ebbe modo di riflettere a fondo su come tali meccanismi si erano sviluppati in lui. Probabilmente è per questo che ricordava, o credeva di ricordare, quell’episodio.

La signora Einstein amava la musica, e i suoi figli la studiarono fin da piccoli. Albert cominciò a suonare il violino a sei anni e prese lezioni fino a tredici; continuò poi a suonare regolarmente fino a un’età avanzata, quando si convinse che ormai il violino era diventato troppo difficile per lui. Non si sa bene se fosse un bravo violinista; molti musicisti famosi avrebbero voluto accompagnarlo e molti lo accompagnarono davvero, ma probabilmente lo facevano più per le sue eccellenti qualità di fisico che per quelle di musicista.

La passione per la musica gli procurò anche altre amicizie interessanti. Nel 1911 un industriale belga molto ricco e abbastanza eccentrico, Ernest Solvay, cominciò a organizzare e finanziare congressi che si tenevano a intervalli regolari a Bruxelles. Solvay aveva delle idee alquanto strampalate sulla scienza, e probabilmente pensava che se li avesse pagati avrebbe potuto riunire un gruppo di scienziati famosi disposti ad ascoltarlo; tuttavia, quando si trovavano tutti riuniti, questi scienziati preferivano ascoltarsi a vicenda. Fu durante uno di questi convegni che Einstein conobbe il re e la regina del Belgio, che chiamava «i Reali» come se questo fosse stato il loro cognome. Nel 1930 scriveva così alla moglie da Bruxelles:

Alle tre del pomeriggio sono andato dai Reali, che mi hanno accolto con un calore davvero commovente. Sono persone di rara purezza e gentilezza. Prima abbiamo parlato per circa un’ora; poi è arrivata una musicista inglese, e abbiamo suonato dei quartetti e dei trii (era presente una dama di compagnia che conosceva anche lei la musica). Siamo andati avanti allegramente per diverse ore; poi se ne sono andati tutti e sono rimasto solo io, che ho cenato coi Reali – alla vegetariana e senza camerieri: spinaci, uova sode, patate, punto e basta (non era previsto che restassi a cena). Mi sono trovato benissimo, e so con certezza che la simpatia era ricambiata.

Hermann Einstein, il padre di Albert, non ebbe molto successo negli affari. Quando il figlio aveva un anno decise di costituire una ditta di ingegneria elettrica e idraulica insieme al fratello minore Jakob, che aveva studiato da ingegnere. Misero su la loro impresa a Monaco, una delle più grandi città tedesche, con l’aiuto finanziario dei genitori di Pauline; fu così che il giovane Albert trascorse a Monaco quattordici anni e qui frequentò le scuole elementari. All’epoca, in Germania quasi tutte le scuole sussidiate dallo Stato erano confessionali: ce n’erano di ebraiche, di cattoliche e via dicendo. Gli Einstein decisero che Albert, tutto considerato, poteva ricevere un’istruzione migliore in una scuola cattolica; era l’unico ebreo dell’istituto a cui lo iscrissero, ma non sembra che questo gli abbia creato problemi.

Le scuole tedesche, però, erano improntate a una tradizione e, spesso, a un’atmosfera militaresche, due cose che Einstein odiò fin dai suoi primi anni. Da bambino non giocava mai con i soldatini, e guardava le parate militari con un senso di pietà e di disprezzo che durò per gran parte della sua vita. Durante la Prima guerra mondiale ebbe anche dei guai per il suo pacifismo militante; solo negli anni trenta, con l’ascesa al potere di Adolf Hitler in Germania, cambiò idea e giunse alla conclusione che il nazismo non poteva essere fermato se non con la forza.

Niente induce a pensare che negli anni di Monaco Albert fosse considerato un allievo particolarmente dotato dai suoi insegnanti. I fisici teorici importanti che hanno rivelato capacità fuori dall’ordinario – spesso di tipo matematico – in età precocissima, per esempio imparando il calcolo infinitesimale prima di raggiungere l’adolescenza o dimostrando un’abilità eccezionale nei calcoli aritmetici a mente, sono parecchi, ma a quanto si sa Einstein non fece mai niente di simile. Ai suoi primi insegnanti sembrava, casomai, un sognatore, e non dei più promettenti; fu lui stesso, tuttavia, a raccontare che i suoi primi ricordi scientifici – molto intensi – risalivano a quest’epoca. Einstein non ha mai scritto un’autobiografia simile a quelle che pubblicano molti scienziati di oggi, in cui raccontano di matrimoni, figli e amanti, e poi, qualche volta, dei propri lavori scientifici. Lui si sposò due volte, ebbe tre figli e molto probabilmente delle amanti, ma doveva essere fermamente convinto che questi fossero affari soltanto suoi perché quando, a sessantasette anni, scrisse finalmente un saggio autobiografico non fece parola della sua vita privata, e non precisò nemmeno se era stato sposato. Il saggio autobiografico si occupa quasi esclusivamente dell’origine delle sue idee scientifiche, e noi sappiamo quando e come la scienza entrò nella sua vita proprio grazie a questo scritto.

Nel saggio Einstein rievoca due ricordi scientifici d’infanzia molto nitidi, che richiamano fortemente quello che sarebbe poi diventato il suo modo di fare scienza, e descrive in particolare la meraviglia che questi episodi produssero in lui. La scelta di questa parola è molto importante: ci meravigliamo tutti delle cose che osserviamo nella natura intorno a noi. Che cosa tiene le nuvole sospese? Perché esistono le stagioni? Che cosa fa bollire l’acqua, che cosa rende verdi le piante o azzurro il cielo? Lo scienziato si distingue dagli altri esseri umani per il fatto che non sopporta di ignorare le risposte a queste domande; e se una persona è così, resterà sveglia tutta la notte, o anche molte notti, finché non avrà risolto il problema. Einstein, che avvertiva questa spinta con moltissima forza, la definì «fuga dalla meraviglia». Facendo ricerca è come se lo scienziato cercasse una via di fuga dalla meraviglia, dalla sensazione di non capire qualcosa: una sensazione per lui terrificante, cui solo la comprensione dà sollievo.

Il suo primo ricordo scientifico è quello del padre che gli mostra una bussola. Aveva cinque anni. Descrivendo il fenomeno, a prima vista così strano, dell’ago che «sa» dove dirigersi anche se niente di visibile lo tocca, Einstein scrive:

Il fatto che quell’ago si comportasse in quel certo modo non si accordava assolutamente con la natura dei fenomeni che potevano trovar posto nel mio mondo concettuale di allora, tutto basato sull’esperienza diretta del «toccare». Ricordo ancora – o almeno mi sembra di ricordare – che questa esperienza mi fece un’impressione durevole e profonda. Dietro alle cose doveva esserci un che di profondamente nascosto.

Ma se un’esperienza come questa deve essere tenuta distinta dalla magia, lo scienziato deve scoprire perché una cosa del genere accade e in che rapporto sta con altre meglio conosciute. Ed è davvero impressionante che il primo ricordo scientifico d’infanzia di Einstein avesse a che fare con il magnetismo, visto che molti anni dopo uno degli aspetti più clamorosi della sua teoria della relatività consistette proprio nel mostrare come elettricità e magnetismo fossero in realtà un unico fenomeno, quello che chiamiamo elettromagnetismo.

Ma all’epoca di questa esperienza infantile anche la teoria moderna dell’elettromagnetismo era molto giovane. Era stata creata circa venticinque anni prima dal grande fisico scozzese James Clerk Maxwell, e verso il 1900, cioè all’epoca della vera e propria formazione scientifica di Einstein, il concetto di elettromagnetismo era ancora così nuovo e quelli che lo comprendevano talmente pochi, che nei corsi da lui frequentati come studente non veniva nemmeno insegnato: dovette impararlo da solo.

La seconda esperienza scientifica ricordata da Einstein nell’autobiografia è completamente diversa. Riguarda la geometria e risale a quando Albert aveva circa dodici anni. A quell’età era ormai passato dalla scuola elementare al Gymnasium, una scuola media e superiore di ottimo livello, dove alcuni professori erano anche studiosi, autori di libri o di pubblicazioni scientifiche importanti. Einstein fu iscritto al Luitpold Gymnasium di Monaco, un istituto cattolico dove sembra che la disciplina fosse ancora più militaresca che nella sua scuola elementare. C’è una foto della sua classe dove gli scolari, tutti maschi, indossano l’uniforme. Potrebbe essere un’accademia militare, e in effetti Einstein chiamava i suoi professori «tenenti», in contrapposizione ai «sergenti», cioè ai maestri elementari. Nella foto Albert ha un sorrisetto ironico e l’aria del ragazzino capacissimo di far diventare matto un insegnante: un’immagine non lontana dalla verità.

All’epoca di queste prime esperienze scientifiche Einstein aveva già cominciato a leggere opere divulgative; gliele aveva consigliate uno studente ebreo russo molto povero di cui conosciamo il nome, Max Talmud. Sul piano formale gli Einstein non erano molto osservanti, tuttavia seguivano l’usanza ebraica di invitare a pranzo uno studioso povero: appunto Talmud, che veniva tutti i giovedì alle dodici. Fra i libri da lui consigliati ce n’erano alcuni di un certo Aaron Bernstein, autore di una collana intitolata Testi divulgativi di scienza naturale. Talmud ed Einstein passavano ore a discutere di questi libri.

Anche lo zio Jakob incoraggiava il nascente interesse di Albert per la matematica, proponendogli spesso dei problemi di algebra o di geometria da risolvere. Uno di questi era un problema di geometria piana: dimostrare il teorema di Pitagora, ovvero la proposizione che la somma dei quadrati dei cateti di un triangolo rettangolo è uguale al quadrato dell’ipotenusa.

Lo zio gli diede anche un libro di geometria, così che il ragazzo vedesse com’era organizzata la materia. Molti anni dopo Einstein scrisse:

All’età di dodici anni provai una nuova meraviglia di natura completamente diversa; e fu leggendo un libretto sulla geometria piana euclidea, capitatomi fra le mani al principio dell’anno scolastico. C’erano delle asserzioni, ad esempio quella che le tre altezze di un triangolo si intersecano in un solo punto che, pur non essendo affatto evidenti, potevano tuttavia essere dimostrate con tanta certezza da eliminare qualsiasi dubbio. Questa lucidità e certezza mi fecero un’indescrivibile impressione. Il fatto che l’assioma dovesse essere accettato senza dimostrazione non mi dava fastidio. Per me era sufficiente, in ogni caso, poter basare le dimostrazioni su proposizioni la cui validità non mi sembrava dubbia. (p. 64 e sgg.)

Qui Einstein parla di un’esperienza che probabilmente tutti abbiamo avuto con la geometria: quella della possibilità, davvero stupefacente, di dimostrare teoremi notevolissimi partendo da un piccolo numero di proposizioni apparentemente autoevidenti, i cosiddetti assiomi: per esempio quella secondo cui è possibile collegare due punti qualsiasi con una retta, o l’enunciato in base al quale tutti gli angoli retti sono uguali fra di loro. E tutti abbiamo imparato che gli assiomi non possono essere a loro volta «dimostrati»: dobbiamo trattarli come blocchi da costruzione con i quali edificare i teoremi della geometria.

Einstein spiega anche come cercò di dimostrare il teorema di Pitagora. Ecco il suo racconto:

Ricordo, ad esempio, che uno zio [Jakob] mi espose il teorema di Pitagora prima che il sacro libretto di geometria mi fosse capitato fra le mani. Con molta fatica riuscii a «dimostrare» il teorema servendomi della similitudine dei triangoli; e così facendo, mi sembrò «evidente» che il rapporto fra i lati dei triangoli rettangoli dovesse essere completamente determinato da un solo angolo acuto. Mi sembrava anche che ci fosse bisogno di qualche dimostrazione solo per cose che non apparissero altrettanto «evidenti».

L’inserto alle pagine seguenti cerca di ricostruire la dimostrazione di Einstein; ma si tratta solo di una ricostruzione congetturale, perché il saggio autobiografico non fornisce altri dettagli.

Nel 1894 Hermann Einstein si trasferì con la famiglia – tutti tranne Albert – in Italia, a Milano. Gli affari non andavano bene a Monaco, e il rappresentante della ditta in Italia propose ai fratelli Einstein di tentare la fortuna nel suo paese. Albert rimase a Monaco per completare il ginnasio; alloggiava in un pensionato gestito da un lontano parente.

Ormai l’atmosfera stessa del ginnasio gli dava terribilmente sui nervi. C’è chi dice che andasse male a scuola, ma non è vero; forse non era sempre il primo della classe, ma prendeva ottimi voti. Tuttavia non aveva molto rispetto per gli insegnanti, e loro l’avevano capito benissimo.

In ogni caso, dopo essere vissuto a Monaco da solo per sei mesi, decise di cambiare aria, e riuscì a farsi rilasciare da un medico un attestato nel quale si diceva che aveva un esaurimento nervoso, nonché – da un professore di matematica – una dichiarazione secondo cui la sua superiore preparazione matematica lo rendeva idoneo a un programma più avanzato. Ma tutto questo divenne pura accademia quando un altro insegnante lo convocò per informarlo che gli si chiedeva di lasciare la scuola: «La sua presenza in classe compromette il rispetto degli studenti». Basta guardare la foto ricordo che ci è rimasta per capire che cosa doveva avere in mente quel professore. Comunque per il giovane Einstein l’espulsione ebbe una conseguenza straordinariamente felice: infatti, se fosse rimasto fino alla fine dell’anno, avrebbe raggiunto l’età per essere chiamato a prestare il servizio di leva.

Come Einstein dimostrò il teorema di Pitagora

In questo inserto darò una mia interpretazione di quello che dice Einstein del teorema di Pitagora. Così avremo anche la possibilità di ripassare questo teorema che utilizzeremo più avanti, discutendo alcune previsioni della teoria della relatività.

Qui sotto disegno due triangoli rettangoli di grandezza diversa, uno più grande e uno più piccolo.

Chiamo rispettivamente A, B, C e A’, B’, C’ i lati dei due triangoli. C e C’ sono le due ipotenuse. Chiamo a, b e c gli angoli opposti ad A, B e C e a’, b’, c’ quelli opposti ad A’, B’, C’. Poiché i due triangoli sono rettangoli, c e c’ sono entrambi di 90°. Ricordiamo che la somma degli angoli interni di un qualsiasi triangolo è di 180°. Perciò se, per esempio, l’angolo a è uguale all’angolo a’, anche l’angolo b dovrà essere uguale all’angolo b’: è una conseguenza delle due equazioni a+b = 90° e a’+b’ = 90°, da cui a+b = a’+b’. Perciò se un angolo acuto di un triangolo rettangolo è uguale a un angolo acuto di un altro triangolo rettangolo, tutti gli angoli dei due triangoli saranno a due a due uguali e i triangoli stessi saranno detti «simili».

Ma questa definizione della similitudine fra triangoli ne implica un’altra: se tutti gli angoli sono uguali, i lati corrispondenti sono proporzionali fra di loro.

Valgono cioè le equazioni:

Chi conosce un po’ di trigonometria può derivare facilmente questi risultati dai seni e coseni degli angoli a e a’, supposto che questi ultimi siano uguali. Ricordiamo che il seno di un angolo è il rapporto fra la lunghezza del lato a esso opposto e quella dell’ipotenusa, mentre il coseno è il rapporto fra la lunghezza del lato adiacente e quella dell’ipotenusa. Non so se Einstein sapesse già un po’ di trigonometria a dodici anni, ma era questo che intendeva quando scrisse che gli sembrava «“evidente” che il rapporto fra i lati dei triangoli rettangoli dovesse essere completamente determinato da un solo angolo acuto».

Una volta afferrato questo, non ci vuole molto per arrivare a una dimostrazione del teorema di Pitagora, se disegniamo il diagramma corretto. Consideriamo, ancora una volta, un triangolo rettangolo e indichiamo i suoi angoli e lati con le stesse lettere di prima:

Poi tracciamo una perpendicolare a C come qui sotto:

Adesso abbiamo tre triangoli, due piccoli e quello grande dal quale siamo partiti: ma questi triangoli sono tutti simili fra loro. Nella figura 4 ho segnato tutti gli angoli e indicato con m e n le due basi dei triangoli piccoli. È chiaro, date le relazioni fra i tre triangoli, che m+n = C. A questo punto possiamo usare la proporzionalità fra i vari lati dei triangoli simili per ricavare le equazioni:

Ma queste equazioni non sono che un teorema di Pitagora camuffato.

Moltiplicando, possiamo riscriverle nella forma:

e:

Se ora le sommiamo otteniamo proprio il teorema di Pitagora:

L’ultimo passo segue dal fatto che

Credo che fosse questo che Einstein aveva in mente quando scrisse: «riuscii a “dimostrare“ il teorema servendomi della similitudine dei triangoli».

Poiché non si era dato pensiero di avvisare i genitori della sua decisione, il suo arrivo in Italia dovette essere per loro una sorpresa; ma un’altra sorpresa, ben più grande, fu l’annuncio di voler rinunciare alla cittadinanza tedesca. Su questo Albert fu irremovibile: non intendeva assolutamente rimanere tedesco. Le conseguenze pratiche di questa decisione non erano del tutto chiare; comunque, nei sei mesi successivi il ragazzo si divertì moltissimo, girando l’Italia per conto proprio. Ma per lui, che aveva sedici anni, questo non significava suonare la chitarra e cantare nei caffè, racimolando qualche lira, mentre passava da una città all’altra nutrendosi di cultura italiana. Tanto per cominciare, era già stato contagiato dal «tarlo della fisica»: voleva capire come funzionava la natura. Probabilmente non sapeva affatto che specie d’uomo fosse un fisico di professione, ma aveva già in testa l’idea di insegnare fisica. Il padre invece pensava che avrebbe dovuto studiare ingegneria elettrica: quella almeno era una professione che poteva dargli da vivere.

Ora, fuori dalla Germania, il miglior posto di tutta Europa per studiare fisica e ingegneria era l’Istituto federale svizzero di tecnologia di Zurigo, indicato molto spesso con la sigla eth, acronimo del nome tedesco Eidgenössische Technische Hochschule. C’erano diverse ragioni per preferire la eth, oltre al fatto che non si trovava in Germania: nel corpo accademico figuravano diversi scienziati e matematici di fama mondiale, e questa era già una buona raccomandazione; in secondo luogo, per iscriversi non era necessario un diploma di scuola superiore, anche se i candidati dovevano superare un difficile esame di ammissione; infine – e questo sarebbe stato molto importante per Einstein nel futuro immediato – erano ammesse le donne.

Quando affrontò l’esame di ammissione Albert aveva solo sedici anni e mezzo, cioè circa un anno e mezzo meno dello studente medio; inoltre non si era molto preoccupato di prepararsi, il che era tipico di lui, all’epoca. Non sorprende quindi che non abbia superato la prova di lingua straniera; ma fortunatamente per lui e per la fisica il direttore della eth, Albin Herzog – con il quale abbiamo un debito di riconoscenza per aver salvato la carriera accademica di Einstein – riconobbe in lui la scintilla del talento matematico e gli propose di seguire un iter al termine del quale avrebbe potuto ottenere l’ammissione: doveva impegnarsi a studiare scienze e lingue moderne per un anno in un liceo di Aarau, a pochi chilometri da Zurigo. Si trattava di una scuola progressista, molto rinomata per l’insegnamento scientifico. Fu una decisione azzeccata, ed Einstein trascorse ad Aarau uno degli anni più felici e fecondi della sua vita.

Fu ad Aarau che Albert chiarì a se stesso che cosa voleva fare nella vita: lo scienziato. A un certo punto, verosimilmente per il corso di francese, mise brevemente per iscritto i suoi progetti futuri, e il compitino è arrivato fino a noi. Ecco una traduzione dal suo francese scolastico:

I miei progetti per il futuro

Un uomo felice è troppo soddisfatto del presente per pensare molto al futuro. I giovani, d’altra parte, amano dedicarsi a piani audaci. Inoltre è naturale che un giovanotto serio si faccia l’idea più precisa possibile delle mete a cui aspira.

Se dovessi avere la fortuna di superare l’esame andrei alla eth di Zurigo. Ci resterei quattro anni a studiare matematica e fisica. M’immagino già professore di questa parte delle scienze naturali, e soprattutto dell’aspetto teorico.

Ed ecco le ragioni che mi hanno portato a questo progetto. Prima di tutto la disposizione al pensiero astratto e matematico e la mancanza di immaginazione e abilità pratica. Anche i miei desideri mi hanno ispirato la stessa decisione. Questo è naturale; a ognuno piace fare le cose per le quali ha le capacità. Poi c’è anche una certa indipendenza della professione scientifica che mi attira moltissimo.

A parte l’atmosfera stimolante della scuola di Aarau, dove Einstein ebbe molte occasioni di impegnarsi attivamente nella sperimentazione scientifica, anche la casa dove alloggiava era piacevole. Abitava presso la famiglia Winteler; «papà» Winteler, detto Winteler‑Jost, un uomo che il ragazzo stimava e trovava simpatico, insegnava nella stessa scuola dove lui studiava; nel 1910 Paul Winteler, uno dei figli, sposò Maja, la sorella di Albert.

Una volta iniziato l’anno scolastico Albert riuscì finalmente a convincere il padre a scrivere alle autorità del Land tedesco del Württemberg – all’epoca in Germania si era cittadini di un Land e non dell’intero paese – per revocare la sua cittadinanza. La richiesta fu accolta e all’inizio del 1896 Albert ricevette i documenti che confermavano il provvedimento. Rimase poi apolide fino al 1901, quando divenne cittadino svizzero. Ora, è risaputo che la Svizzera, pur essendo rimasta neutrale in tutte le guerre del Novecento, è un paese in cui i cittadini di sesso maschile hanno l’obbligo del servizio militare: vengono richiamati sotto le armi per brevi periodi durante gran parte della loro vita adulta. Non sembra comunque che la cosa preoccupasse minimamente Albert: una volta divenuto cittadino svizzero era dispostissimo a fare il servizio militare come tutti gli altri. Ma fu scartato perché aveva i piedi piatti. Nell’autunno del 1896, conseguito il diploma di scuola superiore ad Aarau, Einstein fu ammesso alla eth, dove iniziò un corso quadriennale che doveva abilitarlo all’insegnamento della matematica e della fisica.

A distanza di tanti anni si è indotti a pensare, retrospettivamente, che i suoi quattro anni alla eth non siano stati né un grande successo, né un grave fallimento; o perlomeno è questa l’impressione che dà il tono stesso dei ricordi che leggiamo nella sua autobiografia. Alla Eth, scrive Einstein,

ebbi maestri eccellenti […], e avrei potuto farmi una preparazione matematica veramente solida. Invece lavorai per la maggior parte del tempo nel laboratorio di fisica, affascinato dal contatto diretto con l’esperienza. Il resto del mio tempo lo dedicai soprattutto a studiare a casa le opere di Kirchhoff, Helmholtz, Hertz ecc. (p. 67)

Ma gli esami erano pur sempre obbligatori, e qui viene fuori tutta la sua insofferenza:

Il guaio era, naturalmente, che, piacesse o no, bisognava ammucchiare tutta questa roba nella testa per gli esami. Questa coercizione ebbe un effetto così deprimente su di me, che, quando ebbi dato l’ultimo esame, per un anno intero qualsiasi problema scientifico mi parve disgustoso. Devo tuttavia aggiungere che di questa coercizione (capace di smorzare ogni vero impulso scientifico) si soffre assai meno in Svizzera che in molti altri paesi. C’erano solo due esami obbligatori; per il resto si poteva scegliere quello che si voleva, o quasi. E lo poteva soprattutto chi aveva un amico, come l’avevo io, che seguiva regolarmente le lezioni e ne elaborava coscienziosamente il contenuto. Così fui libero di scegliere il mio lavoro fino a pochi mesi prima dell’esame; libertà di cui approfittai molto largamente, accettando volentieri la cattiva coscienza che me ne derivava come il male di gran lunga minore. (p. 68)

A proposito degli effetti coercitivi dello studio obbligatorio, Einstein afferma pure:

È un vero miracolo che i metodi moderni d’istruzione non abbiano ancora completamente soffocato la sacra curiosità della ricerca, poiché questa delicata pianticella, oltre che di stimolo, ha soprattutto bisogno di libertà, senza la quale inevitabilmente si corrompe e muore. È un gravissimo errore pensare che la gioia di vedere e di cercare possa essere suscitata per mezzo della coercizione e del senso del dovere. (p. 67)

Questa affermazione, che in un certo senso può sembrare molto profonda, da un altro punto di vista sottende una concezione sommamente elitaria. Le persone in grado di imparare da sole più fisica di quella che possono apprendere da un insegnante sono pochissime, soprattutto fra i principianti. La fisica è una materia molto difficile, e per impararla la maggior parte di noi ha bisogno di seguire una guida e di sottostare a una disciplina. Bisogna rimanere in contatto con gli altri ricercatori e con la realtà sperimentale, altrimenti è facilissimo perdere la bussola.

Einstein non ci dice chi fosse l’«amico» che frequentava le lezioni per lui alla Eth e prendeva scrupolosamente appunti, ma potrebbe essere stata la sua fidanzata e futura moglie Mileva Maric (c’è però anche un altro candidato verosimile: un compagno di corso, Marcel Grossmann, del quale si sa che prendeva appunti meticolosi e che in seguito collaborò con lui per la parte matematica della teoria della gravitazione). Uno dei problemi più complessi della personalità einsteiniana è, per qualsiasi biografo, quello del rapporto con le donne. Per gran parte della sua vita, e soprattutto da giovane, Albert fu un uomo di bell’aspetto che piaceva alle ragazze, ma è probabile che per una donna non fosse facile stargli accanto. Per lui la fisica veniva prima di ogni altra cosa, e i rapporti personali erano molto meno importanti; sembra anzi che gli interessasse assai più l’umanità in generale che i singoli esseri che la componevano. Questo non significa, tuttavia, che fosse incapace di innamorarsi; anzi, come vedremo, fu di sicuro molto innamorato, almeno agli inizi, di Mileva Maric. Ma per tutta la vita fu perseguitato, nei suoi rapporti con le donne, da qualcosa che potrebbe quasi sembrare un complesso di colpa.

C’è una chiara testimonianza in questo senso in una delle sue ultime lettere, che porta la data del 21 marzo 1955, meno di un mese prima della morte, sopraggiunta il 18 aprile di quell’anno. È indirizzata alla sorella e al figlio dell’uomo che era stato probabilmente il suo amico più intimo, l’ingegnere Michele Besso, svizzero di nascita, ed è un documento umano veramente notevole. Scrive Einstein:

Caro Vero e cara signora Bice, siete stati veramente cari a informarmi in modo così particolareggiato e fedele delle condizioni di salute di Michele in questi difficili giorni. La sua fine è stata armoniosa come la sua vita intera e come la cerchia dei suoi cari. Raramente la capacità di condurre una vita in armonia è congiunta a un’intelligenza acuta come la sua, ma in lui questo inusuale incontro aveva avuto luogo. Quel che più ammiravo, nell’uomo, è l’esser riuscito a vivere molti anni non solo in pace ma addirittura in accordo costante con una donna; un’impresa nella quale io per due volte ho miseramente fallito. (p. 706)

Comunque sia finita, la relazione di Einstein con Mileva Maric iniziò come una storia d’amore. Mileva era nata in Ungheria nel 1875, quindi aveva circa quattro anni più di lui; inoltre era cattolica: la differenza di religione non rivestiva alcuna importanza per Albert e ne aveva poca, a quanto sappiamo, per i genitori di lei, mentre era importantissima per quelli di lui, e questa fu una delle numerose ragioni che essi accampavano per giustificare la loro ostilità. Non si sa bene che cosa avesse spinto Mileva a recarsi a Zurigo a studiare fisica; l’unico dato certo è che la eth era una delle poche facoltà europee in cui una donna poteva compiere studi scientifici. Nemmeno oggi succede spesso che una ragazza studi fisica, e alla fine del xix secolo questa scelta doveva richiedere una dedizione quasi eroica. Per molti anni si è saputo pochissimo della relazione di Einstein con Mileva, a parte il fatto che era terminata con un divorzio, ma nell’ultimo decennio è stata riscoperta e pubblicata una serie di lettere che i due si scambiarono a partire dal 1897, cioè da un anno dopo che lui era stato ammesso alla eth.

Sembra che nell’autunno del 1897 fossero già buoni amici. Nell’ottobre di quell’anno, mentre era in visita dai suoi in Ungheria, Mileva scriveva:

Mio padre mi ha dato un po’ di tabacco da portarmi via; l’idea era di darlo a lei, lui ci tiene moltissimo a renderle appetitoso il nostro piccolo paese di briganti. Gli ho parlato di lei; deve assolutamente venire qui con me una volta. Farebbe delle conversazioni magnifiche! Ci penserò io a fare da interprete. Questo però [il tabacco] non glielo posso spedire: lei dovrebbe pagare dazio, e poi mi maledirebbe insieme al mio regalo.

Ma a quanto pare Mileva rimase in Ungheria più a lungo di quanto Einstein si aspettasse, anzi, la lettera successiva di lui (febbraio 1898) dà l’impressione che lei avrebbe potuto non ritornare affatto. Scrive Albert:

Mi fa molto piacere che lei abbia deciso di riprendere gli studi qui. Sono sicuro che non se ne pentirà e convintissimo che riuscirà a rimettersi in pari con i corsi fondamentali in un tempo relativamente breve. Certo, se dovessi dirle che argomenti abbiamo trattato mi troverei nell’imbarazzo; il fatto è che lei potrà trovare tutto il materiale, organizzato e spiegato nel modo giusto, soltanto qui.

Nell’agosto successivo la relazione aveva fatto dei passi avanti; le lettere di Einstein non iniziavano più con «Cara signorina» ma con «Cara D», l’iniziale di Doxerl, un nomignolo affettuoso. Le lettere iniziano anche a rivelare le idee che Einstein stava maturando nel campo della fisica.

Nell’ottobre del 1898 Albert ormai parla della «nostra casa» come se lui e Mileva vivessero già sotto lo stesso tetto, e un anno dopo è chiaro che ha deciso di sposarla. C’è una lettera in cui descrive quella che doveva essere una discussione ricorrente con sua madre:

Arriviamo a casa e andiamo in camera di lei. Siamo solo noi due. Prima devo parlarle dell’esame finale. Poi mi chiede, con aria innocente: «E allora che ne sarà di Dockerl?» [Una variante di Doxerl]. «Diventerà mia moglie» faccio io con la stessa aria, e immediatamente accade questo: mamma si getta sul letto, nasconde il viso nel cuscino e piange come una bambina. Ma appena si è ripresa dal colpo iniziale, passa a un’offensiva disperata: «Stai rovinando il tuo futuro, non potrai più farti strada nella vita. Quella donna non potrà mai essere ammessa in una famiglia rispettabile, se avrà un figlio sarai nei guai fin sopra i capelli». A quest’ultimo sfogo, preceduto da diversi altri, finalmente ho perso la pazienza. Ho respinto con tutte le mie forze l’insinuazione che siamo vissuti nel peccato, l’ho sgridata ben bene e stavo giusto per lasciare la stanza quando è entrata un’amica di mamma, la signora Bar, una donnina piccola piccola, tutta pepe e piena di vita; una vera comare, ma del tipo simpatico. Così abbiamo cominciato subito a discorrere appassionatamente del tempo, dei nuovi ospiti dell’albergo, di bambini maleducati ecc. Poi siamo andati a mangiare e dopo ancora abbiamo fatto un po’ di musica. Quando ci siamo dati la buona notte, in privato, la storia è ricominciata, ma più piano.

Il giorno dopo, scrive Einstein, le cose andarono un po’ meglio e la madre disse:

«Se non hanno ancora avuto rapporti intimi» (cosa che lei teme moltissimo) «e sono disposti ad aspettare abbastanza a lungo, si possono trovare i modi e i mezzi». Ma la cosa più terribile per lei è che vogliamo stare insieme per sempre. I suoi tentativi di convertirmi erano basati su discorsi come «Lei è una tutta libri come te, ma per te ci vorrebbe una moglie», «Quando avrai trent’anni lei sarà una vecchia strega» ecc. Ma poiché si è accorta che in tutto questo tempo è riuscita solo a farmi arrabbiare, per il momento ha rinunciato alla «cura».

Non c’è ragione di dubitare che all’epoca in cui fu scritta questa lettera Einstein fosse sincero nel negare davanti alla madre che lui e Mileva avessero avuto rapporti intimi. La lettera è del luglio 1900; ma un anno e mezzo dopo le cose erano cambiate in modo radicale. Albert e Mileva non erano ancora sposati, soprattutto perché lui non era ancora riuscito a trovare un lavoro, ma da una lettera del 12 dicembre 1901 viene fuori chiaramente che lui sa che lei è incinta, visto che le scrive, quasi en passant: «Abbi cura di te e goditi la nostra cara Lieserl [vezzeggiativo di Lise], che per la verità io, nel segreto più assoluto (così che Doxerl non se ne accorga) preferisco immaginare come uno Hanserl [vezzeggiativo di Hans]». Einstein spedì questa lettera e le successive in Ungheria, dove Mileva era tornata per stare dai genitori al momento del parto. Niente lascia supporre che la famiglia di lui o gli amici più stretti, Besso compreso, fossero al corrente; di fatto nessuno, a parte la famiglia di lei, ebbe mai il minimo sospetto finché, alla fine degli anni ottanta, non saltarono fuori le lettere di Einstein a Mileva.

Sembra che la bambina fosse nata a fine gennaio o ai primi di febbraio dell’anno successivo, perché il 4 febbraio Albert scriveva:

Mia amatissima, devi stare molto male, povero e caro amore, se non mi puoi scrivere di persona. E anche la nostra cara Lieserl deve conoscere il mondo sotto questo aspetto fin dal primo momento! Spero che quando la mia lettera ti arriverà tu sia tornata in circolazione e ti sia rimessa in piedi. Quando ho ricevuto la lettera di tuo padre lo spavento mi ha fatto quasi sragionare, perché già sospettavo qualche guaio […] Ma come vedi è proprio venuta fuori una Lieserl, come volevi tu. È sana? Riesce a piangere forte? E che occhietti ha? A chi di noi due somiglia di più? Chi le dà il latte? Ne ha di fame? Ed è proprio pelata pelata? Le voglio tanto bene e non la conosco ancora! Una volta che ti sarai rimessa bene non le potete fare una foto? Ci vorrà molto perché sappia girare gli occhi verso quello che vuole guardare? Adesso puoi fare delle osservazioni. Piacerebbe anche a me produrre una Lieserl un giorno, dev’essere così interessante! Di sicuro sa già piangere, mentre imparerà a ridere molto più avanti. In questo c’è una profonda verità. Quando starai un po’ meglio devi farle un ritratto…

Non c’è ragione di dubitare della sincerità dei sentimenti espressi dal giovane padre in questo passo. Tuttavia la lettera fu spedita in Ungheria dalla Svizzera, e quali che fossero i suoi sentimenti, Einstein non si mostrava ansioso di fare il viaggio di persona; anzi, probabilmente non vide mai in viso Lieserl, che è scomparsa senza lasciare tracce. Morì di malattia o fu data in adozione? E se venne data in adozione, che ne fu di lei in seguito? Nessuno è mai riuscito a scoprirlo.

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