Il bastone. Sarà che ho un debole per le donne crudeli – il sadismo è una forma infernale e superiore di estetica – e l’annoiata indifferenza con cui Lana Del Rey canta, come se stesse combinandoti la pena di morte, mi eccita. La purezza del caso mi scodella nelle orecchie Summertime sadness, con quella nenia ipnotica su quanto è triste l’estate, mentre accadono le tristi e trite celebrazioni del ventennale dalla morte di Fabrizio De André detto ‘Faber’. Il primo pensiero che mi salta in testa – virale come una stupidaggine, virile come un editto biblico – è questo. La canzone dell’amore perduto con quella chiusa genericamente ovvia sul tempo che va e sull’amore che fugge (“E sarà la prima che incontri per strada/ che tu coprirai d’oro per un bacio mai dato,/ per un amore nuovo”), pia melma edonista (io sto con gli amori indimenticabili, che vincono la vita, orifici, per cui sfidi gli inferi pur di vedere e perdere, ancora e ancora, quel volto definitivo come un sigillo), è una noia suina rispetto al ritmo caustico di Summertime sadness.
Gli esempi potrebbero fiorire in serie. Eccone un altro. Il bombarolo. Ballata simpatica, audacemente acida e dalla rima facile (“Chi va dicendo in giro/ Che odio il mio lavoro/ Non sa con quanto amore/ Mi dedico al tritolo”), musicalmente stritolata da There is a Light that never goes out degli Smiths, brillanti cercatori di luce, alchimisti del pentagramma. Esempi strampalati? Può darsi. Ma i fatti sono due. Primo: le parole, in musica, non vanno mai sole – anzi, la musica è preponderante, puoi siglare un capolavoro con delle parole avare, pure cretine (esempio: Wonderful Tonight di Eric Clapton). Il che significa: state tranquilli censori del pop e strologatori verbosi, le canzoni di De André non sono poesie, sono solo canzonette, per quanto sia un retore sagace De André non è Mario Luzi né Giorgio Caproni, d’altronde copia Georges Brassens mica Yves Bonnefoy o René Char.
Secondo: le parole di De André non sono indimenticabili. C’è più genio nella struggente Aria di neve di Sergio Endrigo (“Aria di neve sul tuo viso/ Le mie parole/ Sono parole amare/ Senza motivo/ Prima o poi tra le nostre mani/ Più niente resterà”) che nella pretestuosa Rimini, è più travolgente – e intellettualmente intrigante – La Sua Figura di Giuni Russo della patetica – lo dico in senso buono – Hotel Supramonte di ‘Faber’. D’altronde, la canzone più bella di De André – pur annacquata da un ritmo ornamentale –, Smisurata preghiera, è un copia-e-incolla delle più belle frase tratte dai più bei libri di Álvaro Mutis, autore dello straordinario Summa di Maqroll il Gabbiere; se poi volete capire la lunare inquietudine della Liguria, più che ascoltare Crêuza de mä – che resta il disco più riuscito di De André – vi tocca leggere i libri di Francesco Biamonti, L’angelo di Avrigue, Vento largo, Attesa sul mare, che è il nostro Cormac McCarthy di provincia e di frontiera, setacciato dall’argento degli ulivi che sferzano i cieli di cristallo di San Biagio della Cima, in provincia di Imperia, dove l’uomo è maceria, frantume d’amore. Sfigurando i bigottismi dei celebratori del nulla e i bigodini di quelli che pensano che il cantautorato sia la quintessenza della musica – a proposto, al clangore ideologico della Buona novella, con quel Gesù detto “il più grande rivoluzionario di tutti i tempi”, non preferisco Pasolini, troppo facile, ma la lettura biblica di Leonard Cohen, il sonnambulismo evangelico di Nick Cave – dico che Fabrizio De André è un grande cantautore di serie B, un arguto mestierante di seconda fascia. C’importa questo? Macché, coltivate l’ascolto, gente. Quando rintocca l’anniversario, però, è bene usare l’incenso giusto. Altrimenti si fa nebbia al vero e l’aroma diventa puzzo di carne in avaria.
I fatti sono due. Primo: le parole, in musica, non vanno mai sole – anzi, la musica è preponderante, puoi siglare un capolavoro con delle parole avare, pure cretine
La carota. Il mio pusher delle canzonette mi fa, hai presente Eleanor Rigby? Ovvio, gli dico: Revolver, 1966, seconda traccia. Poi il mio pusher mi incolla l’aggettivo al petto. ‘Dickensiana’. Ascoltala, mi fa, e dimmi se quel testo non è dickensiano. Io la canzoncina di Eleanor Rigby alla finestra e di quello strambo Father McKenzie l’ho canticchiata decine di volte, la musica è un virus, ma al testo non ho mai dato peso. Lo leggo. Paul [McCartney], di due anni più giovane di De André, piazza parole (“Vive in un sogno/ attende alla finestra, indossando la faccia/ che conserva nel barattolo vicino alla porta”), dai tremori esistenzialisti (“tutte quelle persone sole/ a cosa appartengono?”) che il ‘Faber’, che quell’anno esce con il primo disco, tra guerre di Piero, amori perduti, antimilitarismo di retrovia, neanche si sogna. Il tema, formalmente, è chiaro: non è vero che le canzonette pop siano più stupide di quelle volgarmente colte, da enogastronomi del chitarra+voce, del moralismo schitarrato, della ballata con la puzza sotto il naso.
Al contrario, al cospetto di testi come Decks Dark dei Radiohead (“E nella tua vita arriva l’oscurità/ questa astronave che sigilla il cielo/ e non c’è posto dove nascondersi”) o Skeleton Tree di Nick Cave (“Domenica mattina, albero scheletrico/… una candela alla finestra…/ una televisione isterica/ che brilla bianca come fuoco”), davanti al più sapido e canzonettistico Paolo Conte, dove irrealtà, clownerie e grottesco diventano arte della cruenta nostalgia, canticchiando Battiato, che insuffla i sufi nella pop (anche una canzone complessa come Povera patria, per dire, si sente e si canta: “Tra i governanti quanti perfetti e inutili buffoni/ Questo paese è devastato dal dolore/Ma non vi danno un po’ di dispiacere/ Quei corpi in terra senza più calore?”), centellinando l’ermetismo di Battisti sotto la doccia (“La fossa del leone/ è ancora realtà/ uscirne è impossibile per noi/ è uno slogan falsità./ Il nostro caro angelo/ si ciba di radici e poi/ lui dorme nei cespugli sotto gli alberi/ ma schiavo non sarà mai”), ti rendi conto del vero. Che non esiste alto o basso in musica, semmai il giusto mezzo del genio. Che forse De André, sbandierato come il Che Guevara dei cantautori, l’Esopo dei liberi pensatori, è stato sopravvalutato.