Nasce la letteratura come risposta alla morte. Perché si muore?, latra Gilgamesh; Perché la vita se c’è la morte?, urla Giobbe. I momenti cruciali degli ‘omerici’ riguardano la morte: la discesa verso l’Ade, verso i morti – che impongono giudizio e non ammettono consolatoria consolazione – la festa che glorifica il morto in battaglia. Il morto è spogliato, delle sue spoglie si rivestono i vivi – corazza, elmo, amuleto, bracciale, parastinchi, orecchini – per questo il morto non muore mai. Bruciare il morto, perciò, non è incenerirlo: è dimostrare la forza di luce della morte, il morto visibile per miglia, immediatamente risorto, immortale. Il morto fiammeggia, lungo l’arco intero della vita.
Bruciare il morto, in pubblico, rispetto alla cremazione: l’edificio anonimo, il dolore inqualificato, l’urna con le ceneri, semplicemente brutta, neppure ambigua, che qualcuno rovescerà nel mare, al vento, in qualche pittoresco luogo privo di culto, finché, finalmente, il morto muore per sempre. Resta, certo, come un brillio nel nostro ricordo privato – fotografia rituale sul cassettone, messa in onore di, messa in ordine dei ricordi parentali, caute verbosità di cordoglio – non è più riscossa civica, ma dismissione della speranza, sperando nel giudizio universale, demandando all’Altro – o al nulla – la funzione funebre.
Nessuno parla dei morti – non si fa – la letteratura, che nasce per dire l’ultima, la sola parola ai morti, non si occupa più della morte, infangata nella vita – che non è vita ma il preludio della morte, definitiva – nel dibatto, nel ‘sociale’.
Per carità: amo atrocemente la vita – amo come un disperso e un disperato – perché dialogo ogni giorno con i morti, scrivo per loro, in fondo, si vive rispondendo alla promessa pattuita con i morti – per prolungare l’unico gesto di una generazione, della catena umana. Come puoi amare un vivo se non hai custodia dei morti, se non ci si ama come sopravvissuti?
Ora che i morti sono morti davvero, li abbiamo davvero uccisi, non restano che i viventi, vuoti e assassini, e questa vita mortificata. Più o meno questo mi dice Silvio Castiglioni, nell’ultimo caffè dell’anno. Parliamo spesso di morti, io e Silvio: d’altronde, lui è un attore, conosce l’arte di riportare in vita le parole pronunciate dai morti, è una specie di sciamano del verbo. Cita, a memoria, un piccolo libro di W. G. Sebald, Le Alpi nel mare. Gli dico, minaccioso: mandamelo!
“Oggi sono ancora attorno a noi, i morti, ma talvolta mi viene da pensare che forse spariranno presto… Perdono importanza a vista d’occhio. Non si può più parlare di ricordo imperituro e di culto degli avi. Tutto al contrario, i morti debbono essere tolti di mezzo il più in fretta possibile e nella maniera più radicale”. Così scrive Sebald.
Ho visto turbe di morti accucciati nei golfi di nebbia, mentre guidavo oltre Faenza, nei ricami romagnoli, verso la Toscana. A volte hanno figura di airone, altri volto di serpe: se non li accudisci, con devota delicatezza, i morti cercano di riprendersi la vita, ti massacrano, cannibali. Oppure – appaiono come un ronzio nella testa, impongono fughe catatoniche, sfasciano l’ecosistema familiare, ti conducono alla perdita, perché è pur meglio la perdizione a questa sedizione dei desideri.