1. APPUNTAMENTO AL BUIO
“Mi vedevo le mani sporche di sangue e qualcuno mi parlava,
mi diceva, senti, respira. E io ho sentito Livia respirare…”.
È l’alba di un giorno pigro, gentile, invitante: perfetto per una tragedia. Ines piega le lenzuola di lino del letto matrimoniale con la stessa cura maniacale che riserva ai teli grezzi che stende sulle barelle della sua ambulanza, il luogo più squallido del mondo dove trascorrere una nottata. Ma non per lei, che non è una soltanto una donna: è una dottoressa. Su quel furgone bianco e arancione dove si viaggia alla velocità della morte, Ines si muove tra scaffali stracolmi di flebo, mascherine e farmaci con l’agilità delle casalinghe tra le mensole di cucina. Ma c’è una differenza: lei combatte con la morte, le altre al massimo con un sugo al pomodoro.
Anche stasera la dottoressa salirà sull’ambulanza con la curiosità di un giocatore di poker che aspetta qualcuno al suo tavolo: ha un appuntamento al buio, ma non sa dove, quando e neanche perché. Deve solo prepararsi al peggio, come sempre, ma non provate a dirle che fa una vita di merda perché anche lei ha una famiglia, un letto da rifare, un marito e un figlio da baciare. Pensa spesso al suo ragazzino mentre chiede il nome ai giovani che si stendono sulle sue lenzuola e piangono e chiamano la mamma, che in quel momento è lei e basta, c’è poco da puntualizzare. È lei che comanda lì sopra, è lei che accoglie i soldatini caduti sul campo, vecchi, bambini, giovani leoni e pezzi di merda con la puzza di arroganza sotto il naso e quella di morte sotto la pelle. Quei volti cianotici o paonazzi le chiedono di fare presto e spesso le urlano cose orrende, fino a quando scoprono che il tempo sta scadendo e allora cambiano tono, si fanno improvvisamente gentili e con un filo di voce la implorano di salvarli, di fare presto e di chiamare la mamma, che in quel momento è vicino a loro: perché lei non è solo una donna, è una dottoressa. E su quel furgone prima o poi ci saliremo tutti.
Ines non può saperlo ma tra qualche ora, nel centro della notte, penserà per un attimo a suo figlio mentre stringerà la mano a una bambolina magra, con lunghe trecce, distesa al suo fianco, che la dottoressa proverà a tranquillizzare, a risvegliare, a ridarle fiato, alla quale accarezzerà il viso, le mani, i capelli, che chiamerà più volte, fino ad arrendersi. “Livia, mi senti Livia? Livia rispondi, Livia, Livia…”.
24 luglio 2015, ore 6.38
Livia: “Giorno”.
Nello: “Giorno, già sveglia?”
Livia: “Sì, faccio colazione e mi rimetto a letto”.
Non riesco ad addormentarmi, dormirò sto pomeriggio, spero”.
Nello: “Povera piccula!”
È mattina e già si muore, per ora solo di caldo. È un giorno d’estate grigio, afoso, banale: perfetto per una cazzata. La dottoressa lo sa e ripensa a tutte le volte che ha soccorso chi aveva deciso di farsi male da solo. Sembra ieri quel giorno in cui salì sulla giostra del pronto soccorso preferendola alla comodità di uno studio con ricette da scarabocchiare e segretaria da un euro alla porta. Non c’entrano i soldi, lo stipendio è solo un pretesto per stare lì, in un posto che odiano tutti, pure i medici, ma non lei, che adora salvare le persone all’ultimo istante e non si pente mai di essere a bordo, neanche quando di notte la vengono a trovare i volti tristi e offesi di chi non è riuscita a riportare indietro. Di anime sospese tra la vita e la morte Ines ne ha recuperate tante in quei quindici anni trascorsi un metro sopra l’asfalto, a prendere spallate tra una curva e una sgommata, a insufflare ossigeno e bugìe ai moribondi, a far nascere qualcuno che aveva più fretta della sua stessa ambulanza.
La dottoressa non lo sa ma tra qualche ora chiederà per la prima volta al suo autista di correre un po’ di più, di fare presto, più presto, per favore, dai, dai, mentre accanto a lei una ragazzina le spalancherà gli occhioni castani e un po’ verdi senza riuscire a vederla.
24 luglio 2015, ore 15.53
Nello: “Io ti contatto ma tu non mi cachi proprio”.
Livia: “Ma vaffanculo”
Il pomeriggio suggerisce un’ipotesi di palude vietnamita, è caduta pioggia bollente e si suda di nuovo ma per lei quello è un solo dettaglio chimico da affrontare con metodo scientifico. Perché Ines non lascia nulla al caso, neanche quando si impone di riposare dopo pranzo per fare il pieno di energie prima della nottata da trascorrere al fronte. Pancia in su, braccia e piedi sospesi nel vuoto: il suo è solo un corpo disteso su un divano ma la postura allungata e composta farebbe la sua figura anche su un bob lanciato a tutta velocità sulla pista di Cortina. Il sonno pomeridiano è breve e leggero, come un pensiero fuggente, non ammette profondità e abbandono perché neanche un attimo deve andare perso in quelle ore che si consumano nell’attesa del turno per strada, dove l’attende un’umanità in pericolo che le chiede di essere fredda, lucida e anche un po’ stronza.
La dottoressa non può saperlo ma di lì a qualche ora per la prima volta capirà di aver perso un pezzo della sua giovinezza su quella ambulanza, mentre accarezzerà i capelli scuri di una ragazzina bellissima che s’è trovata nel posto sbagliato con l’uomo che credeva il più giusto.
24 luglio 2015, ore 20,52
Nello: “Lei non viene, abbiamo pranzato insieme,
quindi stasera sarò un fidanzato modello”
“Ahahahaha”
La cena è stata rapida e leggera, come sempre quando c’è il turno di notte: Ines ha appeso il marito a un telecomando e il figlio a un rosario di raccomandazioni sgranato al ritmo di un rapper poi ha preso la metropolitanae ha raggiunto la postazione del “118”, in collina,su un promontorio che domina una macchia scura dalla consistenza liquida e minacciosa. Siamo a Napoli, che per chi non la conosca è fondamentalmente un paesino di montagna che si atteggia a città di mare per darsi un tono meno provinciale. Qui il parcheggio è una rampa di lancio e l’ambulanza è molto più che un furgone con sirena: chi la guida farebbe la sua figura anche al volante di una Formula 1 alla Rascasse di Montecarlo.
Stasera solo piccoli interventi, toccate e fughe dall’ospedale: è un venerdì di movida estiva ma per ora si registrano solo infartini da caldo e fumo, occlusioni intestinali da overdose di taralli e impepate di cozze, incidenti domestici di bambini lasciati al pascolo e qualche recupero di anziano abbandonato dai parenti in vacanza con i soldi del nonno ischemizzato. Roba semplice, prima del ritorno nel quartier generale. Generale, si fa per dire: una stanzetta buia con due sdraio sfondate e un monitor acceso che serve a ricordare ai dannati del Pronto soccorso che gli occhi vanno solo socchiusi e il sonno accarezzato in superfice, secondo la procedura standard. Pena un brusco e odioso risveglio tra briciole e zanzare.
La mezzanotte è passata da un po’ ma il giorno precedente non è ancora finito.
La dottoressa non lo sa ancora ma il copione, stanotte, prevede il peggiore degli incubi: il volto straziato dal dolore di una bambina che sorrideva fino a mezz’ora prima, nel giorno più bello della sua vita.
25 luglio 2015, ore 3.41.
Angela: “Ue ue, Livia, stai tornando o mi devo preoccupare?”
Alle 4.03 Ines illumina il cellulare per rispondere al figlio. Sta bene, si diverte, ma l’alba è solo un puntino lontano, come il ritorno a casa, fine pena per mamme ansiose e rassegnate allo stillicidio degli aggiornamenti notturni.
In quel momento, a una cinquantina di chilometri di distanza, suona una sveglia, un uomo la blocca con la mano e con l’altra scuote la moglie. Ha bisogno di dirle qualcosa, sente che è urgente, ma non sa perché: “Tesoro, ho fatto uno strano sogno, mi fermavano con l’auto, c’era tanta polizia, mi arrestavano, proprio a me, ho avuto paura…”. “Sono gli spiriti del purgatorio”, lo tranquillizza lei, con un modo di dire che da quelle parti, in un paesino alle pendici meno fertili del Vesuvio, significa che qualcuno, da lassù, sta vegliando su di lui. Dall’alto, forse, qualcuno davvero lo osserva mentre quell’uomo gentile, che ama curare il terrazzo fiorito di casa come fosse l’altarino di una chiesa, imbocca una strada veloce che chiamano Tangenziale perché solca la città da est a ovest tagliando palazzoni e colline con sopraelevate da brivido e tornanti da percorrere in sospensione, come su un otto volante. È Aniello Miranda, 48 anni, imprenditore e commerciante di latte, ha due figli, una moglie, tanti amici, molti fiori, un animo sensibile. È una persona perbene. Ma questo, stanotte, non serve a nulla.
Dall’altro fronte del vulcano, in una cittadina sul mare in cui s’è consumato un venerdì di musica e alcol, una giovane coppia si tiene per mano e cammina senza parlare: è da poco uscita da un locale dove si sparano note nella cuffie senza diffonderle nell’ambiente, in ossequio a un nuovo modo di socializzare molto in voga al giorno d’oggi e che si realizza compiutamente solo facendosi i cazzi propri. I due hanno alzato un po’ il gomito e ora stanno andando verso un’auto nuova che odora di cellophane e che dovrebbe riportarli a casa ma che invece li conduce, chissà perché, proprio su quella Tangenziale. Sono Aniello Mormile, detto Nello, 29 anni, e Livia Agnese Barbato, 22 anni tra quindici giorni, artisti, lui deejay, lei fotografa, lui robusto come un torello, lei esile come un uccellino. Dicono che si amino molto. Dicono.
Dall’altra parte della città un uomo guida e canticchia qualcosa, in auto, al fianco della moglie, ha mezza età e il sorriso pieno, ridondante, come il nome d’arte, “Voice”, del quale forse Frank Sinatra sorriderebbe ma non i suoi fans, ai quali concede ore di karaoke di gruppo in feste, matrimoni, battesimi e serate danzanti scatenando adrenalina e istinti primordiali in insospettabili esseri umani altrimenti compassati e malinconici, comprimari del mondo in cerca di un alibi e di una scintilla che li autorizzi a diventare protagonisti e li renda finalmente liberi.“Voice” ha quel fiammifero ma non stanotte, la sua missione è un’altra, sta andando a svolgere il suo vero lavoro, c’è un condizionatore da far cantare, la ventola fa le bizze, c’è da metterci le mani più che la bocca, ma in fin dei conti il meccanismo è lo stesso, liberare gli ugelli dalle polveri come le menti dalle inibizioni, soffiarci dentro ed aspettare. La sua specialità.
Improvvisamente però nell’auto è calato il silenzio. In Tangenziale, all’altezza del Vomero, il cantante e la moglie hanno letto un avviso, “Incidente, rallentare”: “Voice” ha frenato d’istinto, strizzando gli occhi, l’ugola ha collassato, s’è incrinata come per una “stecca”, l’uomo ha intravisto l’inferno ma s’è fermato lo stesso ed è andato a vederlo da vicino. Il suo nome è Salvatore Raglione, Sal per gli amici. È un uomo coraggioso. Lo ha scoperto stanotte.
In quegli stessi minuti, in una casa elegante all’interno di una caserma sobria e silenziosa che guarda alla Tangenziale, a qualche centinaio di metri dal disastro, un signore sui cinquanta, dal fisico massiccio, dorme con un pigiama un po’ buffo ma comodo e fresco, da sfilare alla velocità della luce quando arriva la chiamata notturna. Quell’uomo ha il brutto vizio di muovere il culo per andare dove accadono le cose, si sente necessario, non gli piace delegare, anche perché quando accade qualcosa per strada la prima telefonata arriva sempre a lui e se non gli arriva s’incazza. Lui non lo sa ma tra poco, alle prime luci dell’alba, qualcuno lo sveglierà per avvisarlo che a pochi metri dalla sua camera da letto è successo qualcosa di strano, di difficile, un caso complesso perfino per uno come lui che conosce la Tangenziale meglio del corridoio di casa sua. Si chiama Fulvio Papa, è un commissario della Polizia Stradale, specializzato in cazzate altrui. Stanotte ne scoprirà una che non avrebbe mai osato immaginare.
Il destino, che fa incontrare le persone senza un motivo quando è stanco degli errori umani, stanotte ha deciso per tutti. La dottoressa, la fotografa, il dj, il l’imprenditore, il cantante, il poliziotto, hanno un appuntamento al buio tra loro, ma non sanno perché.