Ripensare alla guerra in Vietnam significa ricordare le marce di protesta, i dibattiti pubblici, le manifestazioni e soprattutto, le canzoni. A cantare il dissenso dei giovani ci fu Bob Dylan, vera e propria icona di quegli anni, ma anche Phil Ochs (I ain’t marching anymore), Pet Seeger, i Jefferson Airplane, i Grateful Dead, che adoravano, nei loro testi, mettere in luce l’ipocrisia del potere e della società. Perfino i Beatles, forse per ragioni più commerciali che altro, hanno seguito il trend, con Revolution. Insomma, era un’epoca ribelle con una musica ribelle.
O no? In realtà, anche se non lo si vuole mai ricordare, esisteva anche un’altra America. Una cosiddetta “maggioranza silenziosa” che, senza andare in piazza, era favorevole al conflitto in Vietnam, provava pietà e ammirazione per il sacrificio dei soldati, disprezzava il mondo dei college e dei campus. “Ma cosa vogliono quei ragazzini?”, si chiedevano.
Anche loro, in quegli anni, avevano la loro musica. Non era vento in cui soffiavano risposte, ma canzoni di sostegno ai militari lontani. Il classico pezzo country “Okie from Muskogee”, per esempio, fu scritto da Merle Haggard “in onore di chi stava rinunciando alla propria libertà e alla propria vita per garantire la libertà e la vita di altre persone”, disse. Fu subito un grande successo.
Il testo ripudiava in modo esplicito tutto ciò che era contestazione:
“We don’t smoke marijuana in Muskogee
We don’t take our trips on LSD
We don’t burn our draft cards down on Main Street
We like livin’ right, and bein’ free
We don’t make a party out of lovin’
We like holdin’ hands and pitchin’ woo
We don’t let our hair grow long and shaggy
Like the hippies out in San Francisco do”
Nel corso degli anni, lo stesso Haggard ebbe modo di cambiare idea (la guerra in Vietnam fu un orrore). Per lui divenne una canzone-satira con cui prendeva in giro l’americano medio di allora. Dimenticando, o volendo far dimenticare, che tra gli Okie di Muskogee c’era anche lui.
The Spokesmen, invece, presero un tono più politico. Con “Dawn of Correction”, cantarono la necessità di mantenere le persone libere dal “dominio dei Rossi”, cioè i comunisti, inneggiando insieme al progresso portato avanti dagli Usa.
“The western world has a common dedication
To keep free people from Red domination
And maybe you can’t vote, boy, but man your battle stations
Or there’ll be no need for votin’ in future generations
So over and over again, you keep sayin’ it’s the end
But I say you’re wrong, we’re just on the dawn of correction”.
Del resto, aggiunge, rivolgendosi ai contestatori, “Be thankful our country allows demonstration”.
C Company e Terry Nelson, invece, finirono in cima alle classifiche Bllboard con “The Battle Hymn of Lt. Calley”, in cui si prendevano le difese del tenente William Calley, accusato di aver massacrato i civili nel villaggio vietnamita di Mai Lai. Il testo, che risente delle notizie delle violenze e delle atrocità che avvenivano in quel Paese, riconosce la “difficoltà di riconoscere il bene dal male” in quelle situazioni, e ricorda che i soldati Usa “hanno seguito gli ordini”, prendendo “il villaggio nella giungla proprio come era stato detto loro”, rispondendo con “ciò che avevano” al fuoco dei nemici. E ricorda, che “solo il soldato che è vivo è quello che può combattere”.
Sir, I followed all my orders and I did the best I could
It’s hard to judge the enemy and hard to tell the good
Yet there’s not a man among us would not have understood
We took the jungle village exactly like they said
We responded to their rifle fire with everything we had
And when the smoke had cleared away a hundred souls lay dead
Sir, the soldier that’s alive is the only once can fight
Era un periodo più complesso di quanto oggi si voglia ricordare. Esisteva anche un’altra America, con altre canzoni e altri miti, che non si sarebbe mai sognata che uno dei menestrelli della contestazione, un giorno, avrebbe perfino vinto un Nobel.