Padania e dintorniAutonomia delle regioni del Nord, così è una schifezza (ma la questione esiste, e va affrontata)

Per l’ennesima volta la Lega sceglie di non risolvere il problema che ha sollevato dalla sua fondazione. Ma peggio ancora fanno Pd e Cinque Stelle che lo negano. L’Italia deve levare a Roma il suo potere clientelare, altrimenti muore

Per il governo del “cambiamento” è il turno dell’autonomia regionale, quell’oggetto politico che un tempo si chiamava federalismo e, prima ancora, regionalismo. Una volta ancora – l’ennesima da quando nel disegno costituzionale vennero introdotte le regioni ed ad esse vennero concessi livelli differenziati di autonomia – il tutto si risolverà in una commedia delle parti, condita da stantie accuse reciproche ed il solito, dannoso, effetto finale. Maggior spesa pubblica, nessun miglioramento dell’efficienza dei servizi e, dopo alcuni anni, maggior carico fiscale complessivo.

Eppure il problema esiste, costituisce un blocco immane allo sviluppo economico del paese ed è fonte di continue tensioni e squilibri politici. L’Italia non è un paese socialmente, culturalmente ed economicamente omogeneo ma l’esatto opposto. L’Italia è ancora una collezione di (ex) principati, signorie, repubbliche, regni e ducati tenute insieme da una burocrazia centrale che fra di esse redistribuisce risorse e potere, trattenendone per se la parte leonina. Nel secolo e mezzo da quando queste aree sono state poste sotto un unico potere politico centrale le diseguaglianze relative non sono punto cambiate, anzi. Lungo molte dimensioni le diseguaglianze sono oggi uguali o maggiori di quelle della fine del XIX secolo. Dopo un secolo e mezzo di accentramento del potere a Roma il processo di convergenza reale non è nemmeno partito. Se questo non è un totale fallimento allora nulla lo è.

Questo perdurante stato delle cose implica che, da qualunque lato si affronti la questione, un sistema di governo e di finanziamento e fornitura dei servizi pubblici locali che si adatti a tale eterogeneità e la trasformi in uno stimolo alla crescita complessiva è diventato una necessità fondamentale. Implica anche che un processo – certamente lento ma altrettanto certamente necessario – di ridefinizione delle unità regionali, capace di superare i tradizionali confini (retaggio di episodi storici oggi del tutto inconsequenziali) si sarebbe dovuto avviare sin dalla riforma regionale degli anni ’70; ma questo non è avvenuto né vi è traccia di esso nel dibattito politico. Implica, infine, che una verifica dei poteri ed una loro redistribuzione dal centro alle periferie non deve avvenire a pezzi e bocconi, seguendo l’opportunismo politico della maggioranza del momento, ma deve essere l’oggetto di un dibattito nazionale che miri apertamente ad una profonda e condivisa riforma costituzionale.

Per una ragione o per l’altra, da almeno mezzo secolo gli abitanti di una manciata di regioni finanziano la spesa pubblica di tutte le altre. L’attività economica che genera i 3/4 del valore aggiunto privato è concentrata in poche aree del paese, quasi tutte in un “tubo” del raggio di 150-200 chilometri attorno al fiume Po. Il potere politico, giudiziario ed amministrativo è concentrato a Roma e si dedica alla redistribuzione delle risorse da queste regioni a tutte le altre. Ricatta le affluenti, la cui crescita economica può strozzare, come spesso ha fatto, con imposte, regolamenti ed altri provvedimenti amministrativi. Attraverso un esplicito ed antico “do ut des” elettorale, acquisisce voti e consenso nelle regioni che di tali trasferimenti si beneficiano.

Questa realtà dei fatti è stata bellamente ignorata – negata, infatti, a mezzo di una ritrita retorica egalitaria e piagnona – dalle classi dirigenti della prima e della seconda repubblica, causando al paese enormi danni economici, sociali e financo morali. L’unica eccezione a questa generalizzata e collettiva “ipocrisia romana” è stata la Lega “prima maniera”, la cui posizione e le cui azioni esamineremo in un momento. Preme sottolineare che questa realtà viene, tutt’oggi ed incredibilmente, negata da tutta la sinistra e da praticamente l’intero M5S. Una posizione tanto suicida quanto esplicitamente clientelare, che la consunta retorica solidaristica non riesce oramai più a coprire.

In questo quadro si è inserita, sin dagli anni ’90, la Lega prima sotto la direzione di Bossi ed ora di Salvini. La quale Lega, come dimostrano quasi 30 anni di presenza sia nel governo centrale che in quello delle maggiori regioni del Nord Italia, non ha o ben l’intenzione o ben la capacità (o entrambe) di fare quel che sarebbe necessario fare per rimuovere l’ostacolo. Non lo seppe e non lo volle fare nel 1994/95 quando controllava la maggioranza parlamentare su cui si reggeva il primo governo Berlusconi. Non lo tentò neanche all’inizio degli anni 2000 per accontentarsi poi delle ridicole e controproducenti riforme del Titolo V. E non lo sta neanche menzionando ora, pur essendo di fatto il partner politicamente più forte della coalizione di governo.

Alla Lega interessa solo che la contraddizione si mantenga perché da essa ricava enormi rendite elettorali approfittando della cecità altrui. Ecco quindi che oggi gioca, sfacciatamente, la carta della “autonomia regionale” ben cosciente sia della sua irrealizzabilità pratica che della sua potenziale dannosità economica: la composizione del conflitto avverrà con un aumento della spesa statale e del debito pubblico

Tutto questo non è avvenuto per caso durante questi 30 anni, ma per una precisa ragione: alla Lega non interessava e non interessa risolvere questa contraddizione ma, invece, perpetuarla per ricavarne facile consenso da spendere, a Roma, con ben altri fini. Alla Lega non interessa ridurre lo spreco delle risorse che vanno dal Nord al Sud: fino a quando la mungitura continua il voto di protesta del Nord è garantito. Alla Lega non interessa introdurre meccanismi di autogoverno e responsabilità fiscale che inneschino un processo di crescita organico nelle regioni del Sud: fino a quando esse rimangono arretrate il potere centrale, al cui controllo la Lega partecipa, si rafforza e raccoglie il consenso di coloro che dai trasferimenti dipendono.

Alla Lega interessa solo che la contraddizione si mantenga perché da essa ricava enormi rendite elettorali approfittando della cecità altrui. Ecco quindi che oggi gioca, sfacciatamente, la carta della “autonomia regionale” ben cosciente sia della sua irrealizzabilità pratica che della sua potenziale dannosità economica: la composizione del conflitto avverrà con un aumento della spesa statale e del debito pubblico. La Lega fa questa scelta perché, oggi come 25 anni fa, la sua dirigenza è cinica abbastanza da saper fingere di voler risolvere un problema reale agendo invece per mantenerlo.

Questo assurdo e dannoso gioco è possibile perché il resto dell’arco politico continua a negare i fatti coadiuvato, in questo, dalla burocrazia romana e dal sistema mediatico nazionale. Che questa pluridecennale operazione di malgoverno abbia loro alienato le simpatie dei produttori del centro-nord sembra, ciecamente, non interessare le forze politiche del centro e della sinistra.
Se in un giorno non troppo lontano Matteo Salvini – a colpi di selfie ed incitamenti all’odio razziale – si ritroverà il paese in mano, PD&Co non avranno che la propria inettitudine da ringraziare. Quos vult Iupiter perdere, dementat prius.

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