Tratto dall’Accademia della Crusca
Il quesito ripropone il problema della mozione (cioè del cambio di genere di un sostantivo in rapporto al sesso del referente), già affrontato varie volte dalla nostra consulenza (per esempio gli interventi di Cecilia Robustelli e di Paolo D’Achille su questo sito e quello di Anna M. Thornton sulla Crusca per voi n. 49) e più in generale la tematica del sessismo linguistico, che ha ormai una lunga tradizione di studi e su cui l’Accademia della Crusca è intervenuta più volte, anche di recente (si vedano l’intervento di Cecilia Robustelli nella sezioni “il tema” e i volumi di Claudio Marazzini e Giuseppe Zarra, «Quasi una rivoluzione». I femminili di professioni e cariche in Italia e all’estero e di Cecilia Robustelli, con postfazione di Claudio Marazzini, Sindaco e sindaca. Il linguaggio di genere).
… I nomina agentis in -ante e -ente (molti dei quali si possono anche considerare conversioni da participi presenti) sono normalmente ambigeneri e quindi vengono usati tanto come maschili quanto come femminili. In passato, è vero, c’è stata una tendenza a formare dei femminili in -essa (brigantessa, presidentessa), anche perché la norma tradizionale prescriveva l’uso del suffisso -essa per formare femminili da basi maschili in -e (principe/principessa, dottore/dottoressa), oltre che in -a (poeta/poetessa). Ma l’uso di questo suffisso, che è stato aggiunto, inutilmente sul piano morfologico, anche a nomi maschili in -o, spesso con una decisa connotazione spregiativa o ironica (medichessa, deputatessa, ecc.), è stato poi considerato discriminatorio nell’ottica del sessismo linguistico. Così, alle forme sopra citate si sono spesso affiancate quelle in cui la distinzione di genere è lasciata all’articolo e alle altre modalità di accordo grammaticale, come la presidente, che è da considerare ormai la forma standard. Mi sembra tuttavia di cogliere oggi una certa ripresa di presidentessa, che in passato indicava la moglie del presidente, che ho sentito più volte usare di recente (Paola Villani, Le donne al parlamento. Genere e linguaggio politico, in Per Tullio De Mauro. Studi offerti dalle allieve in occasione del suo 80° compleanno, a cura di Anna M. Thornton, Miriam Voghera, Roma, Aracne, 2012, pp. 317-339, segnala però che presidentessa ha ambiti di riferimento meno “alti” e si usa “per designare o donne che presiedono associazioni, enti, club sportivi o capi di Stato e di Governo straniere” oppure “ha connotazioni ironiche o spregiative”, p. 330).
Con cantantessa ci troviamo di fronte a un caso particolare. La parola è registrata tra i Neologismi quotidiani. Un dizionario a cavallo del millennio 1998-2003 di Giovanni Adamo e Valeria Della Valle (Firenze, Olschki, 2003), ma si riferisce in realtà esclusivamente a una ben precisa artista, la cantautrice siciliana Carmen Consoli, nel cui sito ufficiale si leggeva fino a qualche tempo fa la seguente spiegazione del termine (regolarizzo l’uso di apostrofi e accenti):
Tutto successe nel periodo d’incisione, nello studio con l’ingegnere del suono sud africano Allan Goldberg. Carmen con un suo amico cercava di far capire l’uso del suffisso ‘essa’ per il femminile. Così fecero un esempio per farglielo capire meglio, prendendo come cavia un cane di nome Mela e gli dissero che in italiano il Cane femmina si chiamava Canessa. Così Allan Goldberg sentendo che Cantante per Carmen suonava male, utilizzò l’appellativo Cantantessa.
Fu un errore di un ingegnere del suono sudafricano che voleva dire di stare zitti perché la cantante doveva cantare, ma sembrandogli di rivolgersi a un uomo disse “la cantantessa”
Anche su Wikiquote si riporta il passo di un’intervista in cui la cantautrice riferisce la notizia:
Fu un errore di un ingegnere del suono sudafricano che voleva dire di stare zitti perché la cantante doveva cantare, ma sembrandogli di rivolgersi a un uomo disse “la cantantessa”. Mi piace perché non è un termine serio e non vale come dire “la cantante”, quella che sa cantare. Io invece voglio passare come una che canta, una cantantessa appunto, che sta un gradino più sotto.
Dunque cantantessa è da considerare quasi un nome proprio, un soprannome antonomastico, se pure particolare (non tratto direttamente da un nome comune), e non a caso nel primo passo sopra riportato figura con l’iniziale maiuscola. Ipotizzerei che Carmen Consoli abbia accettato di essere definita “cantantessa” non solo per i motivi, apparentemente “autodenigratori”, esposti nell’intervista, ma anche perché il nome si presta a essere letto pure come parola macedonia, formata da cantant(e) + (po)etessa, considerando l’importanza che nelle sue canzoni assume la componente verbale, il testo.
Vero è che, di recente, la parola è stata talvolta usata anche al plurale, come dimostrano questi due esempi, nel primo dei quali cantantesse sembra significare ‘cantatrici’ (e, data l’ambientazione settecentesca del testo, potrebbe arieggiare formazioni in -essa ormai desuete, come la mercantessa di manzoniana memoria), nel secondo ‘cantautrici’ (con implicito riferimento a Carmen Consoli):
Nobili e cardinali, fraticelli mendicanti, gesuiti; artisti e mercanti d’arte, pastori arcadici; pie matrone e famose cantantesse, ugole d’oro; ambasciatori d’ogni corte d’Europa, d’ogni paese (Vittorio Giacopini, Nello specchio di Cagliostro. Un sogno a Roma. Romanzo, Milano, il Saggiatore, 2013).
[…] brave artiste, dai timbri unici e dotate di grandi e diversificate capacità interpretative, dubitavo fortemente che ci fosse bisogno di cantantesse stranie… (Giacomo Lucchesi, La musa salvifica (1976-1981), 2017, e-book).