Che cosa si siano detti non si conosce, nonostante l’ampio spazio dato dai media all’incontro tra Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista e i capi dei gilet gialli svoltosi in un villaggio a un centinaio di chilometri da Parigi. Sembra chiaro che non ci sarà nessun apparentamento di qui alle elezioni europee di maggio. L’internazionale nazional-populista forse esiste, ma per ora sembra una galassia di interessi confusi quanto divisi. Si può arguire, tuttavia, che esista un filo conduttore tra i pentastellati e gli scamiciati in giubbottino catarifrangente. Gli uni e gli altri sono uniti da un rifiuto, un grande no alla crescita. Non a questa crescita, non a questo modello di sviluppo, ma alla crescita e allo sviluppo tout court. Non al progresso di pochi contro il regresso dei molti, ma contro il progresso in sé e per sé. Chiamarla ideologia è troppo, forse è una “confusa rivolta contro la razionalità”, come quella analizzata tempo fa dal filosofo Isaiah Berlin. Certo che esiste un comun sentire: chiedere tutto agli altri, in particolare allo Stato, alle istituzioni pubbliche e private, senza concedere nulla. Abbiamo già dato, adesso tocca a voi.
Christophe Chalençon leader dell’ala dura dei gilet jaunes crede a un capo e vuole non la democrazia diretta, ma la dittatura militare, scavalcando a destra, e di molto, Marine Le Pen. Ingrid Levavasseur, la pulzella della Normandia «né di destra né di sinistra» vuole rovesciare l’Europa in nome dei cittadini. Una miscela di revanche e grogne, rivincita, vendetta e brontolio, un continuo gioco al rialzo all’insegna del vogliamo tutto e subito. Il paradosso è che solo un ritorno allo sviluppo potrebbe dare soddisfazione alle richieste e alle esigenze di chi è stato davvero colpito dalla crisi, eppure è proprio lo sviluppo a essere rimesso in discussione nei fatti e nelle idee.
Gli investimenti dovevano essere l’alfa e l’omega della politica economica stando a Giovanni Tria e a Paolo Savona, adesso si vede quanto interessino davvero i nemici della crescita i quali hanno una idea bizzarra di come si usano i quattrini quando si è al potere.
Di questa confusa rivolta l’Italia è senza dubbio la punta di diamante: a un secolo esatto dalla discesa in campo contro l’ordine liberale, il paese diventa di nuovo un laboratorio politico. Reddito di cittadinanza e pensioni anticipate avrebbero bisogno di risorse che solo una crescita sana e duratura potrebbe assicurare, invece la politica del governo produce continui passi indietro. E gli effetti si vedono. Ieri l’Unione europea ha abbassato e di molto le previsioni: appena un più 0,2% quest’anno, altro che l’1,5% previsto originariamente dal governo e poi ridimensionato all’un per cento; nemmeno lo 0,6% calcolato dalla Banca d’Italia che tanto aveva irritato il presidente del Consiglio e il ministro dell’economia. Appena due decimali di punto, insomma crescita zero, stagnazione assoluta. I fanatici della decrescita scoprono che, al contrario di quel che sosteneva Beppe Grillo innamorato di Serge Latouche, è tutt’altro che felice. Questa è vera e propria recessione, la terza in dieci anni trascorsi in apnea con delle brevi pause per prendere una boccata d’aria. Eppure Il governo giallo-verde continua a far finta di niente. Anzi, a bruciare altre risorse.
Non c’è solo la Tav, adesso rispunta il no alla ricerca di idrocarburi. Ma come, non era stato il popolo a decidere, facendo fallire il referendum dei No Trivelle? E adesso il M5S anziché servire il popolo, lo tradisce, decide di fare di testa propria, infilando nel decretone il blocco delle attività. Le compagnie minacciano penali di centinaia di milioni di posti di lavoro, migliaia di posti di lavoro sono a rischio, Ravenna ribolle di rabbia. E i pentastellati distraggono dal bilancio dello stato ben 470 milioni di euro per rimborsare i danni e risarcire i profitti. Altro che investimenti pubblici, qui si tratta di perdita secca da parte dei contribuenti perché quei milioni provengono dalle loro tasse. Gli investimenti dovevano essere l’alfa e l’omega della politica economica stando a Giovanni Tria e a Paolo Savona, adesso si vede quanto interessino davvero i nemici della crescita i quali hanno una idea bizzarra di come si usano i quattrini quando si è al potere.
«Facciamo le piccole opere non le grandi», si sente ripetere sui mass media. «Usiamo i soldi della Tav o dell’alta velocità in genere per i treni dei pendolari». Come se si trattasse di scegliere se comprare le scarpe o un telefonino. Non passa per la testa che gli investimenti sono legati a precisi progetti di sviluppo. Niente progetti niente quattrini. E ancora: le imposte sulle banche e le assicurazioni a che cosa servono se non a soddisfare un sadico piacere punitivo? E la tassa sui servizi digitali non è una trappola bella e buona per un paese in ritardo sulla rivoluzione digitale?
L’Italia ha un gap rispetto alla media europea di un punto percentuale e questo è dovuto alle molte palle al piede, quella amministrativa, quella legale, quella tecnologica. La zavorra delle zavorre è la produttività
Il numero due della Banca di Grecia, George Tavlas, venuto a Roma la scorsa settimana, chiedeva ai suoi commensali, tra un cannellone e l’altro, come mai l’Italia non riesce a crescere. Ce l’ha fatta persino la Grecia nonostante le convulsioni politiche e i pesanti costi sociali. Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ripete come un mantra che l’Italia ha un gap rispetto alla media europea di un punto percentuale e questo è dovuto alle molte palle al piede, quella amministrativa, quella legale, quella tecnologica. Ma la zavorra delle zavorre si chiama produttività. Il lavoro è poco (quel che allarma non è solo l’alto numero di disoccupati, ma il basso numero di occupati rispetto alla popolazione), ed è impiegato male. Ciò vale non tanto per l’industria manifatturiera, quanto per i servizi dai quali proviene la maggior parte del prodotto lordo. Servizi poco efficienti significa anche peggiorare la qualità della vita, significa decrescita totalmente infelice.
Quarant’anni fa, per uscire dalla più grave delle crisi attraversate fino ad allora, quella che con il rialzo dei prezzi del petrolio e dei salari vide l’inflazione balzare oltre il 20% annuo, venne deciso di allungare l’orario di lavoro, abolendo sette festività (cinque direttamente e due accorpandole alla domenica più vicina). Tra queste anche l’Epifania. Giulio Andreotti che allora era a palazzo Chigi ricordava sempre, con il suo solito sarcasmo, che quella era stata la decisione più dolorosa (dopo qualche anno venne ripristinata). Funzionò, non da sola, ma insieme a una stretta monetaria, a un patto sociale e all’aiuto del Fondo monetario internazionale. Oggi, vengono chiusi i negozi la domenica.
Tra un attacco al pensiero unico neoliberista e una maledizione contro il complotto pluto-giudaico massonico, sia il M5S sia la stessa Lega hanno scelto di distribuire il reddito che non c’è, indebitandosi. Sì, anche Matteo Salvini: nonostante la sua base elettorale sia nel nord-est che produce ed esporta, ha rinunciato a ridurre le imposte (almeno per quest’anno) per “seppellire la Fornero” (senza poi riuscirci). La crescita non è tutto; il Pil non misura il benessere; lo sviluppo non rende felici: questi sono i pilastri della “saggezza” pentastellata alla quale la Lega contrappone l’uso del bilancio pubblico per proteggere alcuni dei suoi ceti di sostegno, per nazionalizzare le banche (così non saranno mai davvero moderne ed efficienti penalizzando i risparmiatori e i depositanti), per salvare anche quel che non sarebbe razionalmente salvabile. Così, tra interessi costituti più o meno in conflitto ed ideologia del no, s’infrange la barca Italia già di per sé piena di falle. E la non crescita diventa recessione.