Il bastone. Ho estratto un florilegio di frasi per bonificare i miei tempi tristi, mi fanno sbellicare. Ne ricalco un paio, gemellate. “Io e Belén, come Bonnie e Clyde, abbiamo fatto la storia”; “Nessuno sarà mai come me e Belén. Ci sono stati Al Bano e Romina, dopodiché il nulla, eccetto noi”. Speculare sul senso della storia implicito in queste frasi, impalcare orazioni siderali sulla relativa Weltanschauung, sottolineare l’arcuata idiozia dei riferimenti – Bonnie e Clyde e Al Bano e Romina non sono esattamente Abelardo ed Eloisa, Arthur Miller e Marilyn Monroe, Walter Chiari e Ava Gardner, Serge Gainsbourg e Brigitte Bardot – farebbe il gioco di Fabrizio Corona, che gode nell’usare l’intellettuale come un dildo, nel vilipendere l’intelletto con una reiterata serie di cretinate – tipo: “Io ho un magnetismo: guardo una donna e dopo un attimo sono lì che me la faccio” – atte a far vibrare l’ego dell’idiota che è in te.
In realtà, Fabrizio Corona, il Lancillotto del trash, icona del grottesco, battutista nato – si definisce “uno che a un certo punto ha lottato da solo per la sua libertà”, manco fosse Garibaldi, Che Guevara, Michael Collins: al suo cospetto il delinquente comune Cesare Battisti assurge al ruolo di principe dei banditi – è il Fantozzi del nuovo millennio, gli manca solo il genio di Paolo Villaggio.
Fabrizio Corona è il ragioniere dei piaceri ingenui: come Ugo Fantozzi ha rappresentato lo sfigato frustrato nazionalpopolare dei Settanta e degli Ottanta, così Fabrizio Corona è l’emblema del figlio di papà in cerca di celebrità, conta solo il grigio orizzonte dell’ego (“ho una sorta di magnetismo che nessuno può capire: io riesco a entrare dentro le persone”), la figa (“Oggi il Cialis cammina con me, e col Cialis scopo da Dio, chiedete a tutte quelle che mi sono fatto in questo periodo, non ce n’è una che sia rimasta scontenta”), il denaro (“avevo ancora un fottuta sete di soldi… l’odore dei soldi… mi dà lo stesso piacere della cocaina”: frasi romantiche che neanche un ottuagenario cresciuto leggendo Raymond Chandler col desiderio di diventare Humphrey Bogart).
Inutile stargli a dire che l’egotismo è un carisma riservato ai grandi – leggetevi la vita di Benvenuto Cellini, le memorie di Casanova, i diari di Lev Tolstoj, superbi, arroganti, diabolicamente cinici – e che la questione non è mai “morale” – le scelleratezze di Corona sono opere pie rispetto alle perversioni del Divin Marchese, le esplorazioni belliche di Mishima, le pulsioni erotiche di Isaac B. Singer – ma, quando scrivi un libro, semplicemente estetica (e il libro di Corona, creativamente castrato, che mima il titolo della canzone che ha vinto lo scorso Festival di Sanremo, Non mi avete fatto niente, è una bulimica stupidaggine).
Il fantozziano Corona, prezzolato esistenziale, che sente il dovere di dirci quanto costa la sua vita (“spendendo circa trentamila euro per venti giorni”), che scopa come una bestia a patto che abbia il Cialis tutti i giorni (anche a colazione: “mister Corona, quando si sveglia, vuole il suo pasto pronto per poi andare in palestra, e nel menu della colazione non devono mancare mai i pancake, i mirtilli, le noci e il Cialis”), che ha una visione patetica di sé (“Ancora una volta Fabrizio Corona è Dio per l’Italia”) e della sua vita (“Quando lavoravo io c’era Michelle Hunziker con la storia della setta e i fidanzati cambiati come se fossero caffè al bar; c’era Vieri magro che si trombava anche la cassiera del paninaro sotto casa mia; c’era Aída Yespica che faceva perdere la testa a tutti…”, che, insomma, non è come essere vissuti tra Platone e Aristotele, ma neanche tra Fellini e Flaiano, tra De Niro e Scorsese, per dire, un po’ di dignità mister Corona, ca**o), infine, commuove quasi. Pare, Corona, davvero, il Fantozzi con i pettorali in esposizione fotografica e il fallo chimicamente eretto, olè.
Il libro, però, è davvero brutto. Per assurgere al ruolo, indimenticabile, nell’Eretteo dei santi pop, Corona dovrebbe far scrivere la sua biografia a uno scrittore vero. Ne verrebbe un libro comico entusiasmante. E perfino una fiction di vibrante ironia. “Io sogno la morte da Re”, tartaglia Corona nel Testamento che chiude il libro, “Freddie Mercury, Jim Morrison, Marco Pantani, Marco Simoncelli; tutti i grandi se ne sono andati presto”.
In questo caso, il caro Corona fa la popò oltre il recinto del palestrato. La “morte da Re” è propria, appunto, dei re, di chi è stato regale. Non pretendo che Corona citi Sergej Esenin, Hart Crane, Georg Trakl, Piero Manzoni, Simone Cattaneo; eppure Pantani, Simoncelli, Freddie Mercury, Jim Morrison hanno fatto qualcosa di grande nel loro piccolo campo, hanno dato forma a qualcosa che li fa resistere e li supera, che vince la morte. Fabrizio Corona no. Lui è condannato a vivere. Come un Fantozzi qualunque. Quando sarà morto, chi se ne ricorderà?
Fabrizio Corona, Non mi avete fatto niente, Mondadori 2019, pp.146, euro 16,90
La carota. Altro che Corona. Se vogliamo incoronare un personaggio da romanzo, uno che ha avuto davvero una vita da film, beh, quello è lui. Gian Ruggero Manzoni. Nato a Lugo sessant’anni fa, erede disperato di una famiglia che tra gli avi annovera Alessandro Manzoni e Piero Manzoni, è tra i grandi artisti ‘totali’ di oggi: romanziere – leggetevi almeno Caneserpente e Il morbo – poeta – Il dolore e Le battane di bronzo sono capolavori, leggete almeno Tutto il calore del mondo, indorato da opere di Mimmo Paladino – pittore, ideatore di riviste, fondatore di cenacoli artistici, ha attraversato il mondo dell’arte – da Keith Haring a Pier Vittorio Tondelli, da Andrea Pazienza a Valerio Magrelli – con impeto da Minotauro, totalmente dentro, assolutamente altrove, con rabbiosa fame di vita.
GRM ha avuto una vita – che ne somma diverse – diversa, particolare, enigmatica. Un giorno insegnava all’Accademia di Urbino e l’altro andava a sparare nei Balcani, in operazioni militari di spionaggio su cui per anni sono aleggiate leggende della peggior specie. Taurino, rissoso, ma adornato dalla compassione dei principi, GRM ha giocato ad alimentare la sua leggenda nera, farcita da speculazioni teologiche dal nitore impeccabile.
Dopo un tot di anni passati a intervistarlo, a inseguirlo, a fargli ‘vuotare il sacco’, uno scrittore di talento come Pier Paolo Giannubilo ha raccontato l’indicibile di Gian Ruggero Manzoni nel romanzo Il risolutore. Il libro, che entra dentro l’attività ‘segreta’ di Manzoni – desumibile da un frammento della sua nota biografica: “Nel 1977, a seguito dei fatti riguardanti il famoso Marzo Bolognese, lascia la città emiliana e parte volontario nelle Forze Armate” – il poeta d’assalto, un po’ cavaliere dell’Apocalisse un po’ Byron, esteta alle armi, il mistico nel cuore di tenebra, ha un ritmo indiavolato, è una variazione superba intorno al tema ‘amore&morte’, perché GRM – le cui imprese sessuali, narrate con dovizia, farebbero impallidire il Corona impasticcato di Cialis – è un risorto, uno che è nato e defunto troppe volte, che ha avuto la cura della conversione e il cuore per tradire e obbedire, che vive intriso nel perdono.
Uno dei brani più intensi del romanzo racconta l’incontro tra GRM e Giovanni Testori (“Di fronte alle banalità postnichiliste del suo giovane interlocutore, il disorientamento del cattolicissimo Testori era stato totale. «Non ti riconosco più» lo aveva rimbrottato. «La volta scorsa parlammo di poesia, del sacro, della figura e dell’insegnamento di Gesù. E ora mi ritrovo davanti un arrabbiato che disprezza il mondo e la vita perché sono imperfette, con argomentazioni da liceali di borgata in assemblea di istituto». Manzoni era stizzito. Trovava irricevibile il tono paternalistico con cui Testori, trattandolo come lo trattava Lincoln, da subalterno, lo stava liquidando. «L’anarchia morale, l’assenza di umiltà… questo non ti condurrà da nessuna parte» aveva continuato il miglior fabbro. «Non siamo affatto in balia dell’insensatezza, come dici. Se sei in difficoltà, la soluzione non è isolarti, fuggire da te stesso, e chiuderti nella tua superbia. Puoi farcela, se lo vuoi. Se ti riconsegni a Dio. Se ti fermi. Se ti rimetti in ascolto. Ma devi tirarti fuori dal pozzo in cui stai scivolando. È pericoloso…»”).
Naturalmente, i momenti, tra pallottole e baci, tra demenza dell’ego ed esoteriche crudeltà, in cui il romanzo narra l’arte della dissipazione sono eccitanti. Ma è il ritrovare la posizione eretta dopo la caduta, la statura del salto pur travolti dal fango, a dare sostanza di credo e di grandezza a GRM. Con tutto il rispetto verso l’inaudito e l’imprevisto, GRM, figura estrema in un mondo letterario di codardi, una mitragliata a fendere i vigliacchi, è già immoralmente immortale.
Pier Paolo Giannubilo, Il risolutore, Rizzoli 2019, pp.486, euro 20,00