Il bastone. E chi lo sapeva: la prova della rotondità della Terra ce l’ha data, irrevocabilmente, il culo ben tornito di una diva. Parola di Andrea Camilleri, brandito ovunque come una specie di Garibaldi, il fondatore di una nuova religione patria di cui Montalbano è profeta, che nell’ultima ‘fatica’, Conversazione su Tiresia, fa dire all’indovino riesumato dai sepolcri: «non riuscii a staccare gli occhi dal corpo di Atena… fu guardando il suo lato B che ebbi la certezza che il mondo fosse rotondo e non piatto». Minchionerie da cabaret di terza categoria. Stendendo un sudario funereo sulle battute ‘politiche’, davvero indecenti – i consigli della Pizia, «Un po’ rimbambita», si focalizzano su «cose umanamente impossibili da realizzare, come ad esempio riuscire a distinguere oggi in Italia un politico di sinistra da uno di destra» – fa impallidire la cretineria narrativa di Camilleri quando simula d’immedesimarsi nella psiche di una donna. Come narra il mito, a Tiresia viene stravolto il sesso, diventa donna, perché ha osato separare due serpenti in estro, uccidendo uno dei due. «Diventare una donna non significa solo perdere gli attributi maschili e ricevere in cambio quelli femminili, è qualcosa di più sconvolgente. Vale a dire ricevere un cervello di donna. E questo mi atterrì». In bilico sull’orrido di una smunta misoginia da brontosauro, Camilleri fa scempio di ogni anamnesi psichica, inizia a balbettare scempiaggini («Meglio non conoscere a fondo i pensieri che possono agitare la mente di una donna. Un cervello affollatissimo: piccole esigenze quotidiane convivono accanto a grandi quesiti universali»), per poi ridurre l’aureo concetto in svaccata arte masturbatoria («…la curiosità di trovarmi in un corpo che mi era estraneo fu fortissima. Devo ammetterlo, non ho resistito a sperimentarne tutti i possibili piaceri»). Le lotte erotico-olimpiche tra Zeus e Era si risolvono nel “proverbio vecchio di secoli: «tra moglie e marito non mettere il dito’»; la tragedia multipla di Edipo – uccide il padre e si tromba la madre – è davvero tragica perché «un giorno sarebbe nato un tale di nome Sigmund Freud e lui sì, con la sua teoria del complesso di Edipo, avrebbe rovinato la vostra esistenza»; il repertorio che ripercorre la ricorrenza di Tiresia in certi testi della letteratura recente – da Guillaume Apollinaire a Thomas S. Eliot a Ezra Pound, che son felice sia riconosciuto come un “maestro” – pare tirato giù dal menù di Wikipedia, altro che Camilleri guru dei teleutenti, gourmet dell’editoria, e ha svariate carenze (dimenticarsi di Robert Graves è baronia da stolti, ad esempio). Insomma, questa Conversazione su Tiresia è una pasta con le sarde ammuffite, un cannolo con la ricotta rancida, è scritta male, negli interstizi della colazione e del ‘canone Camilleri’, è un modo un poco torbido e balordo per farsi autopromozione – quando parla di Sofocle, Camilleri/Tiresia cita “un Montalbano qualsiasi”, a pagina 28; a pagina 55, si strimpella l’autoinzuccamento con violini bene accordati: «…sono stato regista teatrale, televisivo, radiofonico, ho scritto più di cento libri, tradotti in tante lingue e di discreto successo. L’invenzione più felice è stata quella di un commissario». Perché questo acuto di vanagloria nella gloriosa vecchiaia? Perché questa triviale tracotanza? Al confronto con questo Camilleri, chessò, Paolo Villaggio, il Falstaff genovese, è un Picasso della comicità, e Mariano Laurenti un cineasta omerico. Prossimamente in visione Rai – perché va in tivù l’opera minore di un rinoceronte rimbambito dalla fama piuttosto che una delle tante, belle, vigorose drammaturgie di un giovane autore? – questa Conversazione su Tiresia è già stata al Teatro Greco di Siracusa, lo scorso 11 giugno. Per fortuna le pietre non sanno frignare. Se pensiamo, a proposito di resurrezione dei ‘classici’, che nel 1960 Pier Paolo Pasolini (che aveva 38 anni mica plurinovanta) ha tradotto l’Orestiade di Eschilo per l’esercizio scenico, in atto proprio a Siracusa, di Vittorio Gassman, viene da urlare alla blasfemia – o per lo meno, da fare una pernacchia.
Andrea Camilleri, Conversazione su Tiresia, Sellerio 2019, pp.60, euro 8,00
La carota. Le gambe più belle della poesia italiana recente sono quelle di Dora Markus. Le “gambe magnifiche”, inviate in fotografia da Bobi Bazlen all’amico Eugenio Montale con satiro invito – “falle una poesia” – hanno fatto sgambare il poeta a dovere, concedendoci la poesia che sappiamo, Dora Markus, tra le grandi del canone novecentesco, d’austerità liturgica («Non so come stremata tu resisti/ in questo lago d’indifferenza ch’è il/ tuo cuore; forse/ ti salva un amuleto che tu tieni/ vicino alla matita delle labbra»). «Di questa donna il poeta non conobbe mai nulla al di fuori di quel paio di gambe nude, ma accettò la sfida e da quel dettaglio anonimo seppe creare un personaggio indimenticabile. Il potere alchemico della poesia trasformò così un’immagine senza volto nella singolarità irripetibile e definitiva di un essere umano», scrive Fabrizio Coscia, che intorno all’evanescenza da Ninfa di Dora Markus, inseguendo altre Ninfe, arcaiche, arcane – quella del Ghirlandaio nella Nascita di Giovanni Battista, «un remoto altrove nella tranquillità di un interno borghese»– letterarie – la ‘ninfetta’ di Nabokov, ad esempio – pittoriche – le figure intrigate e diafane di Bonnard – costruisce un libro d’inevitabile fascino, I sentieri delle Ninfe, che solo per puro esercizio accosto alla vigliaccata di Camilleri, accoltellatore di Tiresia – andasse Coscia in Rai, piuttosto, a leggere brani dal suo leggiadro vespaio di ninfe, un ninfaio. Ho avuto il privilegio di leggere in anteprima il libro di Coscia, che è anche una arcuata, arguta esegesi della ninfomania (compreso Lars Von Trier): le Ninfe, come tutto ciò che è di inenarrabile erotismo, “sono dispensatrici dei doni della vita, ma anche portatrici di morte”; la natura della Ninfa, elusiva e acquatica, suggestiva, rimanda all’atto di scrittura: “In fondo anche la scrittura ha una natura liquida, proprio come l’acqua. Le parole possono stagnare o scorrere via, possono ingorgarsi o evaporare. La scrittura ha, di fatto, una sua inafferrabilità mercuriale e questo l’apparenta senz’altro alla dimensione ninfale”. Geniale nel gesto del saggio narrativo, Coscia ci avventura tra i versi di Petrarca e gli splendori di Botticelli, nei penetrali di Proust e nel gergo di Cechov e di Boccaccio e nelle paranoie di Aby Warburg. Il suo libro, cioè, s’allinea a quelli dei grandi autori – da Cesare Pavese a Christoph Ransmayr, da Gesualdo Bufalino a Christa Wolf – che hanno tentato di afferrare i capelli del perduto, il mito che fu, la caviglia del mondo classico, con decisione aurorale e dedizione claustrale. La mania per la Ninfa, in fondo – così leggo la ricorrente attenzione che lungo il testo è dedicata, ad esempio, a Montale e alle sue dee – è la fede nel bagliore che sappia snocciolarci la pupilla, risolvere in una fuga, in una preda, un destino.
Fabrizio Coscia, I sentieri delle Ninfe. Nei dintorni del discorso amoroso, Exòrma 2019, pp.192, euro 14,50