Sono al governo da otto mesi, hanno approvato le riforme che avevano promesso in campagna elettorale e ora non sanno più cosa fare. Lega e Movimento 5 stelle hanno sparato tutte le loro cartucce migliori, applicando l’unica parte del contratto di governo su cui non sono completamente divisi. Ma l’hanno fatto troppo presto. Mancano ancora quattro mesi prima che possano passare all’incasso con le elezioni europee. Con l’Italia in recessione tecnica e l’autorizzazione a procedere di Salvini per il caso Diciotti che dividerà ancora di più il governo, rischiamo di rimanere per un quadrimestre immobili, in attesa di elezioni che confermino o ribaltino i rapporti di forza.
Ieri il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio ha presentato con uno stile non così sobrio i risultati del governo gialloverde svelando nove fumetti di cartone appoggiati su altrettanti cavalletti da pittore e coperti da un telo arancione. Tutto rigorosamente in diretta Facebook. Una scena da telemarketing che fa rimpiangere le slide di Renzi paragonate al tempo alle televendite di Mastrota. Stop alla pubblicità del gioco d’azzardo, flat tax al 15% per le piccole imprese, tagli ai vitalizi e alle pensioni d’oro, daspo ai corrotti e risarcimento alle banche. Senza contare i due cavalli di battaglia: quota 100 e reddito di cittadinanza. Alcune riforme più semplici da fare, altre frutto di una lotta con l’Europa che ha permesso di farne solo una piccola parte. Non tutti avranno 780 euro come promesso in campagna elettorale e per andare in pensione non basterà avere 41 anni di contributi come garantito dalla Lega, ma 38 e 62 anni d’età. Non proprio la stessa cosa. È stato fatto tutto in otto mesi, niente male, ma forse una gestione meno frenetica avrebbe permesso al governo di non avere il fiato corto quando ancora manca tanto, forse troppo, alle elezioni di maggio, il vero punto di non ritorno.
Litigheranno, si scambieranno in pubblico frasi velenose e finché si potrà rimanderanno le decisioni più importanti a dopo le elezioni europee.
Sul tavolo rimangono i dossier più spinosi: Tav, Tap, legittima difesa. L’immobilismo gialloverde si vede in politica estera: dal ritiro delle truppe in Afghanistan voluta dal M5S e frenata dalla Lega all’ultimatum dell’Ue a Maduro. Salvini appoggia il golpe: “Basta prudenza, sosteniamo nuove elezioni” , Di Battista no: “È una stronzata megagalattica. E mi meraviglio di Salvini che fa il sovranista a parole ma poi avalla, come un Macron o un Saviano qualsiasi, una linea ridicola”. Risultato dello scontro? Ieri M5S e Lega per non farsi male si sono astenuti alla mozione del Parlamento Ue a favore di nuove elezioni in Venezuela. E succederà sempre più spesso. Litigheranno, si scambieranno in pubblico frasi velenose e finché si potrà rimanderanno le decisioni più importanti a dopo le elezioni europee. Come hanno fatto con le trivelle: salvate le estrazioni ma con una moratoria di 18 mesi che sposta il problema un po’ più in là. L’immobilismo non piace a tutti: “Di Battista ignora e parla a vanvera”, ha detto Borghezio dopo il voto. Prepariamoci ad altre frasi sanguinose tra i due alleati di governo.
Da qui a maggio si parlerà molto del voto del Senato sull’autorizzazione a procedere per il caso Diciotti. Matteo Salvini è accusato di sequestro di persona, abuso d’ufficio e arresto illegale. Prima sì, poi forse, poi no, ora il leader della Lega chiede ai 5 stelle di non votare a favore del processo, ma qui i girllini si giocano la loro credibilità politica rivendicata a colpi di “onestà, onestà”. Silvio Berlusconi da vecchio volpone della politica ha capito che questi quattro mesi lacereranno la maggioranza e ha proposto un governo con la Lega appoggiato da qualche responsabile da pescare tra i delusi del M5S.
Conte si assume le responsabilità di tutto ma gli italiani sanno che poco c’entra. La cosa non dispiace al presidente del Consiglio perché sa che l’Italia ama l’uomo forte che urla e minaccia, ma fino a un certo punto. Perché questo Paese l’hanno governato per cinquant’anni i democristiani, maestri del troncare e sopire.
Aspettando il ribaltone, i ministri del governo sembrano fare ognun per sé: Trenta annuncia il ritiro delle truppe da Kabul senza avvertire gli alleati di governo, Moavero lavora nell’ombra per mediare alle dichiarazioni contrastanti di Salvini e Di Battista sul Venezuela, la ministra della Salute Grillo affronta il popolo dei No Vax, da sempre simpatizzanti con il movimento. “Bambini e giovani, fate il vaccino anti-meningite anche se non è obbligatorio”. Insomma ognuno per la propria strada.
Nella maggioranza litigiosa, tra autorizzazioni a procedere e ministri che prendono decisioni in autonomia sconfessandosi a vicenda, l’unico a mantenere un po’ di credibilità è il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Mediatore per inclinazione democristiana e necessità gialloverde, da signor nessuno che era, ora sembra far la figura dello statista. È lui ad aver mediato con gli Stati europei per distribuire i 47 migranti della Sea Watch, lui a essersi assunto la responsabilità sul caso Diciotti, difendendola come una scelta collegiale di governo. E sempre lui ha anticipato i dati sulla recessione. Si assume le responsabilità di tutto ma gli italiani sanno che poco c’entra. La cosa non dispiace a Conte perché sa che l’Italia ama l’uomo forte che urla e minaccia, ma fino a un certo punto. Perché questo Paese l’hanno governato per cinquant’anni i democristiani, maestri del troncare e sopire.