L’oro del popolo, l’oro alla patria, e quant’altro, è solo polvere, aurea, ma pur sempre evanescente, in fondo lo riconosce anche Claudio Borghi che ha lanciato il pallone in aria. La nuova commissione d’inchiesta sulle banche affidata a un giornalista (sia pur diventato senatore) come Gianluigi Paragone, è teatro. Lo stop alla nomina di Luigi Federico Signorini è un dispetto verso il funzionario che ogni volta viene inviato davanti ai parlamentari per spiegare cosa non funziona nella politica di bilancio, e verso chi lo manda, cioè il governatore Ignazio Visco.
Tanto rumore per nulla, allora? Non esattamente, il fumo, lo strepito, lo sguaiato agitarsi mediatico non può essere fine a se stesso, non può risolversi in un gioco di specchietti per gli allocchi. C’è dell’altro, ci deve essere.
C’è senza dubbio un nuovo avvertimento lanciato a Mario Draghi irritato da tutto questo cancan. Draghi lascerà la Bce alla fine di ottobre, proprio quando l’Italia dovrà giocare la partita decisiva con la legge di bilancio per il 2020. Le scelte più difficili sono state rinviate e si parte già con un handicap di 23 miliardi di euro, a tanto ammonta l’aumento dell’Iva imposto dalle clausole di salvaguardia nate nel 2011 per tutelare i saldi di finanza pubblica. Draghi è il convitato di pietra della politica italiana, in caso di una nuova caduta verticale dell’economia potrebbe toccare a lui la parte del salvatore. Un ruolo che certo non piace a Lega e Cinque Stelle.
Ma c’è anche un coté che riguarda la politica economica nazional-populista. «Guardate il Giappone – si sente dire dagli esponenti che Rocco Casalino manda in televisione – ha un debito pubblico monstre e non succede nulla. Sapete perché? Perché è tutto in mano ai giapponesi». E ancora: «Il debito pubblico? Non conta, è una partita di giro se è solo un prestito che alcuni italiani fanno ad altri italiani».
Non è vero che l’indebitamento nipponico non abbia effetti negativi: da trent’anni il Giappone ristagna in mezzo a una vera e propria deflazione. Quanto alla partita di giro, l’economia del debito è l’economia dei redditieri contro i produttori. Ma leggendo e ascoltando il mondo giallo-verde, emerge un vero e proprio tormentone: il debito pubblico italiano è raddoppiato negli anni ’80 e sapete perché? Per colpa del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia.
C’è senza dubbio un nuovo avvertimento lanciato a Mario Draghi, il convitato di pietra della politica italiana. In caso di una nuova caduta verticale dell’economia potrebbe toccare a lui la parte del salvatore. Un ruolo che certo non piace a Lega e Cinquestelle
Prima i buoni del tesoro erano comprati dalle banche che avevano l’obbligo di tenerne una certa quota, il resto era assorbito dalla banca centrale che a sua volta finanziava il governo con un tasso fuori mercato attraverso un conto corrente ad hoc.
Nel 1981 Beniamino Andreatta, ministro del Tesoro e Carlo Azeglio Ciampi governatore della Banca d’Italia, introducono il divorzio, cioè una legge che impedisce queste operazioni. Il Tesoro a quel punto deve emettere titoli sul mercato vendendoli attraverso aste competitive, e finanziare il disavanzo soprattutto con aumenti delle tasse o tagli delle spese. In un contesto di prezzi crescenti, il debito poteva ridurre il suo valore, ma quando l’inflazione in quel fatidico 1981 arrivò al 21%, fu inevitabile aumentare i tassi d’interesse. Ciò fece balzare all’in su il costo e l’intero debito.
Questa ricostruzione è quanto meno parziale. In primo luogo, prima del divorzio non erano certo rose e fiori, tanto che l’Italia dovette chiedere continui prestiti all’estero e la Bundesbank chiese in pegno una fetta di riserve auree. Non fu sufficiente e alla fine arrivò il salvataggio del Fondo monetario internazionale, che impose la sua cura da cavallo. In ogni caso, la separazione non fu affatto improvvisa, tanto che la Banca d’Italia continuò a comprare titoli pubblici ancora a lungo e le banche ne erano piene già allora grazie alla “moral suasion” della banca centrale.
Ricordare il passato è difficile anche per chi lo ha vissuto, figuriamoci per i nuovi arrivati. In ogni caso, gli economisti che ispirano ed elaborano il pensiero dei capi insistono che la chiave di volta è rinazionalizzare il debito (tutto agli italiani anche quel 30% che oggi sta in mano a banche e istituzioni straniere) e abolire o quanto meno sterilizzare il divorzio. C’è poi un obiettivo ancor più ambizioso, quello annunciato dal piano B per ora rimesso nel cassetto, anche se resta pur sempre l’arrière pensée di questo governo. In tal caso, il passaggio chiave sarebbe ridenominare il debito nella nuova moneta svalutata, il che richiede il paracadute della banca centrale nazionale.
Lasciamo il bersaglio grosso nel mondo dei sogni e chiediamoci se gli obiettivi intermedi sono davvero realizzabili. Nazionalizzare l’intero debito può non essere difficile, ma questo vuol dire che le banche italiane dovrebbero assorbire quote ancora maggiori di titoli pubblici. Se l’ammontare del debito non si riduce, i loro bilanci sono ingessati; anche ammettendo che così il rischio segnalato dallo spread diminuisca, vuol dire che resta meno spazio per finanziare famiglie e imprese. Un credit crunch strisciante si presentò proprio negli anni ’70, mise in ginocchio le imprese private, spingendo l’Iri, l’Eni, l’Efim, insomma le partecipazioni statali a diventare delle navi ospedale per l’industria malata.
C’è poi un obiettivo ancor più ambizioso, quello annunciato dal piano B per ora rimesso nel cassetto: in tal caso, il passaggio chiave sarebbe ridenominare il debito nella nuova moneta svalutata
Ben più difficile sarebbe l’operazione di sterilizzare il debito pubblico mettendolo sul groppone della Banca d’Italia. Se la banca centrale compra titoli immette moneta liquida sul mercato, è quel che ha fatto la Bce e la conseguenza è far crescere l’inflazione. Il pericolo oggi è ridotto perché le innovazioni tecnologiche da una parte e un mercato del lavoro globale hanno tenuto bassi i costi e i prezzi. Ma ciò non impedisce che si crei un circolo vizioso, una vera e propria trappola del debito che spiazza gli investimenti e pesa sull’intera economia.
Circolano molte idee nel giro governativo, per esempio c’è una quota di titoli acquistati dalla Bce con il quantitative easing che fisicamente sono in conto alle banche centrali nazionali. Potrebbero essere separati dalla montagna del debito accumulato, e magari usati come cuscinetto. La Banca d’Inghilterra ha comprato titoli di stato per 375 miliardi di sterline e sono stati eliminati dal bilancio consolidato. Perché non ripetere l’esperimento? Sarebbe una specie di Quantitative Easing nazionale, anzi “per il popolo” se quelle risorse venissero spese in pensioni e reddito di cittadinanza. E se servissero per finanziare la flat tax? Bingo! È realistico tutto ciò o entriamo in un regno virtuale, da moneta parallela e affini? A voi la risposta.
Siamo partiti dagli attacchi alla Banca d’Italia e ci siamo inoltrati in un labirinto onirico in cui la politica costruisce architetture sospese nel vuoto, senza tener conto della realtà, la prima delle quali è data dal mercato che non è fatto di pochi speculatori, ma da una miriade di soggetti che debbono decidere come lavorare e risparmiare. Il mercato, che comunque dà la sanzione decisiva, ben più importante della Bce, della Ue, dei vincoli e delle istituzioni sia nazionali sia sovranazionali. C’è qualche altra spiegazione per capire l’assedio di palazzo Koch?