Matteo Salvini non è di destra. Almeno, non della destra che crede in Dio, Patria e Famiglia. E nemmeno della destra che ha fede nella diseguaglianza, nella forza dell’individuo contrapposta a quella della massa, la destra che milita nelle fila della meritocrazia. Salvini non ha mai invocato il senso dello Stato come entità superiore alle parti, né quello dell’Ordine. Non considera l’obbedienza una virtù. Al contrario, si definisce – nella sua autobiografia, Secondo Matteo – un “disobbediente”. Lo stesso nome che si diedero i no global di Luca Casarini. Paradossalmente, Salvini vede “più valori di sinistra nella destra europea che in una certa sinistra che si spaccia per tale”. In altre parole, Salvini non crede in ciò in cui ha creduto la destra che abbiamo finora conosciuto. Eppure, è diventato il modello della destra che conosciamo oggi, e che continueremo a conoscere domani.
Più della metà degli italiani crede in lui. L’altra metà crede sia un pericolo per l’Italia. Tutti credono in qualcosa, quando si tratta di Salvini. Ma lui, in cosa crede? Crede nei confini, certo. Però, il suo ardore è mobilitato innanzitutto dal nemico, il bersaglio da colpire, la divisione del mondo tra chi sta da una parte e chi sta dall’altra. Il suo discorso è soprattutto un discorso contro. Contro l’immigrazione, contro le tasse, contro la burocrazia, contro l’élite, contro le Ong, contro i radical chic, contro i campi rom, contro l’insicurezza, contro l’euro-burocrazia, persino contro San Valentino (giovedì ne ha proposto sui social l’abolizione, facendosi fotografare mentre guarda un tramonto alla finestra).
Salvini va in “direzione ostinata e contraria”, sebbene non nella stessa in cui andava il suo cantautore preferito, Fabrizio De André. È il carburante della sua macchina politica. Si nutre del nemico anche quando il nemico è sconfitto. Per esempio, la Fornero è un bersaglio che mobilita così tanto consenso a sfavore che continua a colpirla, pur dopo averla semi-smantellata.
La nuova destra di Salvini non è la “destra divina” di cui parlava Pier Paolo Pasolini, in una stupenda poesia, l’ultima che scrisse in friulano, Saluto e augurio. La “destra divina che è dentro di noi”, che esorta a “difendere, conservare, pregare”. Salvini attacca, prende la ruspa, impreca. È a suo agio nella modernità. Non ha rimpianti violenti, né il desiderio di strappare alla disintegrazione la Repubblica che “è nel corpo della madre” (sono ancora parole di Pasolini), ossia ciò che continua a generare vita, nello stesso, antico modo di sempre. Salvini vuole cambiare tutto. È orgoglioso di definire il governo di cui fa parte il governo del cambiamento. Non si commuove per il latino o per il greco. Usa le emoticon, mette due punti interrogativi e tre esclamativi, manda bacioni agli avversari, si fotografa con il pane e la nutella su Instagram.
Più della metà degli italiani crede in lui. L’altra metà crede sia un pericolo per l’Italia. Tutti credono in qualcosa, quando si tratta di Salvini. Ma lui, in cosa crede? Crede nei confini, certo. Però, il suo ardore è mobilitato innanzitutto dal nemico, il bersaglio da colpire, la divisione del mondo tra chi sta da una parte e chi sta dall’altra. Il suo discorso è soprattutto un discorso contro
Il ministro degli italiani prima di tutto potrebbe forse condividere una frase di Joseph de Maistre, grande reazionario che contestava le costituzioni nate dalla Rivoluzione francese perché concepivano l’uomo indipendentemente dalla nazionalità: “Nella mia vita, ho visto francesi, italiani, russi, ecc.; so anche, grazie a Montesquieu, che si può essere persiani; ma quanto all’uomo, dichiaro di non averlo mai incontrato in vita mia; se esiste, è a mia totale insaputa”. Tuttavia, non c’è né in Salvini, né nella nuova destra, il furore degli anti moderni, la fede nel principio d’autorità, da proteggere anche e soprattutto dalla maggioranza. “La sovranità del popolo, la libertà, l’uguaglianza – scrive ancora de Maistre –: la folla capisce questi dogmi, perciò sono falsi; essa li ama, perciò sono cattivi”.
Al contrario, Salvini ha invoca la supremazia del televoto per designare il vincitore di Sanremo. Si sente il portavoce di sessanta milioni di italiani. Il custode del buon senso. Al di là della destra e della sinistra, categorie in cui non crede più. Poiché le fedi di Salvini sono circoscritte. Non sono totali, né totalizzanti. L’alta velocità, l’autonomia delle regioni del nord, la pressione fiscale troppo alta. Niente che non si possa affrontare seduti attorno a un tavolo. È con le sue sfiducie che non si può negoziare. Il no all’immigrazione. Il no all’euro-burocrazia. Il no alle Ong. È ciò che lo accende, accendendo il suo elettorato.
La nostalgia degli dei la prova un pensatore di destra robusto come Marcello Veneziani, uno che scrive nel suo libro appena uscito che “gli dei sono figurazioni di principi, idee in forme di simboli”: la Civiltà, la Patria, la Famiglia, la Tradizione, il Mito, il Destino, l’Anima, Dio. Tutta roba in maiuscolo, di fronte alla quale ci si deve rimpicciolire, per potersi riempire della loro grandezza. Salvini non si inginocchia di fronte a nessuno. Né, questo, è un gesto che noi uomini liquefatti nella società contemporanea facciamo spesso. Presi dall’opulenza, avrebbe detto Augusto Del Noce, riusciamo ad avere solo fedi in miniatura. Se vediamo uno che crede davvero, chiamiamo la polizia. Sia egli cristiano, musulmano, oppure un fervente federalista europeo. Salvini è come noi. In fondo in fondo, non crede in niente. Per questo, è molto credibile.