“Le emozioni sono facili, elementari. Se impari i trucchi, le puoi governare, mentre i pensieri rimangono liberi, vanno dove dicono loro e complicano le cose. Dove comanda la ragione, la statistica muore.” Con queste parole il personaggio del Ministro dell’Interno, pericolosamente simile all’attuale e autentico Ministro dell’Interno, protagonista dell’ultimo romanzo di Giacomo Papi Il censimento dei radical chic (Feltrinelli), spiega al suo psicologo perché gli intellettuali sono così importanti e al tempo stesso così pericolosi mentre un corpo elettorale che si muove sulla base delle emozioni riesce a essere più controllabile. Nel romanzo, un governo dispotico, raffigurazione grottesca dell’attuale esecutivo gialloverde, asseconda così tanto la rabbia popolare e la frustrazione della gente da indicare negli intellettuali, e il loro uso delle parole complicate e lontane dall’uso comune (parole da bandire, infatti, proprio perché il linguaggio deve essere semplice) il nemico per definizione, con tanto di omicidi che porteranno all’istituzione di un registro, appunto, cui gli aderenti verranno — previo pagamento di una quota d’iscrizione — identificati come radical chic e per questo protetti dai possibili linciaggi. L’obiettivo del romanzo è chiaro nel mettere in risalto gli assurdi rischi che la deriva culturale di questo governo può comportare. Ma nella descrizione del radical chic come un alto borghese annoiato comunque un po’ compiaciuto, Papi sembra dirci anche un’altra cosa. O comunque la si legge in filigrana una volta chiuso il libro: diamoci una svegliata.
Al lunghissimo elenco stilato negli ultimi mesi sulle cose da cui la sinistra dovrebbe ripartire manca una sola cosa: gli intellettuali. O meglio, la riflessione intellettuale attorno al senso autentico di quello che è successo il 4 marzo 2018. Un voto che non ha determinato solo una sconfitta elettorale, ma soprattutto ha ufficializzato un cambio di paradigma politico e una pesante débâcle culturale. Un voto che arriva da lontano, figlio di errori lunghi forse decenni, e che sono stati resi possibili da un lato dalle responsabilità di una politica progressista che si è via via disinteressata dal peso specifico degli intellettuali nella capacità di lettura e definizione immaginifica di un paese; e dall’altro lato dalle colpe proprio degli intellettuali engagé, trasformatisi sempre più nella caricatura e nello stereotipo facile da identificare come “nemico”. La sinistra non riparte dagli intellettuali perché in questo paese la sinistra non ha più intellettuali.
Al lunghissimo elenco stilato negli ultimi mesi sulle cose da cui la sinistra dovrebbe ripartire manca una sola cosa: gli intellettuali
Se della politica e della sua scarsa capacità di ascolto, oltre che degli errori di una sinistra che ha svalutato il ruolo dei pensatori (diventati improvvisamente “professoroni”), se ne è sempre molto parlato, meno attenzione abbiamo dedicato anche all’altro lato del problema. Perché se è vero che gli intellettuali non hanno più il peso specifico che avevano un tempo (dove forse non erano letti dal popolo come una certa retorica della nostalgia vuole farci credere, ma venivano letti e discussi da tutti i politici), al tempo stesso è altrettanto vero che la riflessione intellettuale, negli ultimi anni, vive una drammatica fase regressiva. L’intellettuale stereotipato di oggi non è più la voce critica che si immerge nel paese, lo gira, lo conosce, analizza la situazione e mette la classe dirigente in allerta riguardo i cambiamenti che ne stanno agitando le vene profonde (quel Pasolini che prevedeva la completa spoliticizzazione dell’Italia nel 1975 ci aveva visto giustissimo, ad esempio) o riesce a descrivere alla perfezione, e senza compiacimenti, le contraddizioni della società per cercare di raddrizzarle (si pensi all’Arbasino di Un paese senza).
Oggi il paese non viene descritto per quello che è, ma viene commentato dalle colonne di giornali che ogni anno lamentano una drammatica contrazione delle vendite. Commenti in cui i fatti del giorno vengono liquidati in poche righe, dove l’analisi è stata sostituita dall’adozione di un generico buon senso conservativo (e conservatore), e la visione del mondo sottende a quel compiacimento di una “diversità per negazione” in cui sembra davvero che qualcuno ti stia giudicando dall’alto della famigerata e mitologica terrazza in centro. Quando in Aprile Nanni Moretti metteva in guardia dai rischi dell’omologazione dei giornali («Un unico, grande giornale»), voleva mettere in guardia anche dall’omologazione del pensiero e da una certa consolazione derivata dall’uso comodo della cultura. Era il 1996. Peccato che anni dopo lo stesso Nanni Moretti sembra aver esaurito la sua carica critica e sia diventato sempre più l’immagine di uno di quei dirigenti con i quali “non vinceremo mai”. L’ironia ogni tanto sa essere ancora crudele.
L’intellettuale stereotipato di oggi non è più la voce critica che si immerge nel paese, lo gira, lo conosce, analizza la situazione e mette la classe dirigente in allerta riguardo i cambiamenti che ne stanno agitando le vene profonde
Una sinistra che non riparte dai suoi intellettuali non va da nessuna parte perché non riuscirà mai a comprendere le ragioni di quello che è successo, e non riuscirà mai a immaginare una visione del mondo alternativa capace di costruire un nuovo “grande orizzonte” con cui presentarsi al fantomatico popolo della sinistra cui i partiti non sanno più che cosa dire. Ma al tempo stesso gli intellettuali devono smetterla di cercare soluzioni comode, lamentarsi dei bei tempi andati e quasi compiacersi esteticamente della propria passata gloria in una eterna decadenza che lascia, francamente, il tempo che trova. In fondo il buon senso è sempre stato nemico del progresso, e quando l’Economist mette in copertina il millennial socialism all’americana indicandolo come una tendenza da combattere, vuol dire che forse la possibilità di costruire ancora un pensiero alternativo, non compiaciuto, in grado di leggere lo spirito del tempo e immaginare il futuro esiste ancora. Dietro idee politiche come il Green New Deal di Alexantria Ocasio Cortez e la proposta di tassazione al 70% per i super ricchi c’è l’idea di orientare il dibattito — riuscendoci — e coinvolgere un sempre maggior numero di persone, soprattutto giovani, su temi come il futuro, la redistribuzione e, più in generale, su un ritrovato senso di lotta per la giustizia sociale che dovrebbe essere l’obiettivo principale della sinistra.
Da noi invece sta capitando l’esatto opposto. La sinistra non orienta nessun dibattito e allontana sempre di più i giovani. Gli intellettuali più interessanti vivono confinati senza riuscire a sfondare nel dibattito, lontani dai circoli chiusi dei vari “salotti” che da anni confinano l’élite culturale in quel parnaso mentale in cui le categorie sono diventate, stringi stringi, semplici e le analisi degli esercizi di stile mediocri e tutto sommato vuote. Se la cultura diventa compiacimento da cinema d’essai al sabato pomeriggio, se i romanzi non riescono più a raccontare altro che non sia un personale particolare incapace di diventare lettura profonda del sociale, se la musica è destinata a dividersi tra una critica vuota allo status quo dei quali invidia i simboli e le marche di successo, e un inesorabile riflusso nel privato dell’amore e dei sentimenti, allora diventa un orpello di cui effettivamente non sappiamo più che farcene. L’Altro che non ci vota diventa lo specchio di un paese che non ci piace, ma che non abbiamo fatto niente per cambiare. Quello che resta, alla fine, sarà proprio un paese senza. Quel pensiero viaggerà pure libero, ma viaggerà nel nulla.