Una discarica a cielo aperto. Governi sovranisti o meno, questo rischia di diventare l’Europa nel giro di appena un decennio. Secondo lo studio di un gruppo di ricercatori dell’Università della Georgia, infatti, entro il 2030 il Vecchio continente accumulerà qualcosa come 110 milioni di tonnellate di rifiuti plastici, che non potranno rientrare in alcun circuito economico.
Questo non sarebbe successo se la Cina, paese che da solo importa più del 70 per cento degli scarti di plastica prodotti a livello globale, da un anno a questa parte non avesse stretto sulle importazioni di rifiuti, tagliando a inizio 2018 su 24 categorie diverse di scarti da importare, per poi a novembre 2018 passare a 32 tipi in totale. Un disastro per l’Unione, che da sola è il maggior esportatore di plastica a livello mondiale.
Il perché del blocco cinese è presto detto: «fino a un anno fa, la Cina importava la plastica e si dedicava a varie attività di selezione manuale, ma con due problemi: i lavoratori erano sottopagati e tutto ciò che non aveva valore restava in Cina, finendo per aumentare il volume delle discariche locali», spiega a Linkiesta Antonello Ciotti, presidente del Corepla, il consorzio per la raccolta, il riciclo e il recupero degli imballaggi in plastica. Dovendo bilanciare tra le problematiche ambientali e il proprio fabbisogno di risorse (secondo i dati riportati dal Sole 24 Ore, si stima che il mercato della spazzatura abbia un valore di 17 miliardi di dollari), i cinesi hanno preferito tagliare sulle tipologie di prodotti da far entrare nel proprio paese, optando solo per scarti “di qualità” (ovvero quelli riciclabili più facilmente e quindi a costi inferiori).
La domanda, a questo punto, sorge spontanea: che cosa distingue un rifiuto di qualità da uno inutile? Ai fini del riciclo della plastica, la differenza non sta tanto nel materiale in sé, quanto nel modo in cui è composto: «una bottiglia di plastica è facilmente riciclabile, ma il vassoio del prosciutto, ad esempio, è fatto da più plastiche incollate insieme che devono essere separate per essere riciclate», spiega ancora Ciotti.
Il problema dell’Unione europea, però, è che mancano le strutture, le tecnologia e le risorse finanziarie adeguate per riciclare i rifiuti complessi al suo interno (tant’è che in Europa solo il 30% dei rifiuti viene riciclato). E oltre alla qualità della plastica, un altro problema è costituito dal prezzo dei prodotti riciclati rispetto a quelli nuovi: secondo i dati dell’Unione europea, infatti, la domanda di plastica riciclata ammonta a solo il 6% della domanda di plastica complessiva in Europa.
Diversi problemi si sommano quindi l’uno all’altro: per il momento, l’Occidente ha deciso di optare per lidi alternativi alla Cina a cui mandare i propri rifiuti. «Paesi come la Malesia, la Thailandia e il Vietnam nell’ultimo anno hanno già aumentato le proprie importazioni. Ma chiaramente nessuno di questi paesi ha la capacità di gestione di un paese come la Cina, senza contare che è già faticoso per loro gestire i propri rifiuti interni. E infatti alcuni di questi hanno già dovuto ridurre le moli di rifiuti in entrata», dice a Linkiesta Arnaud Brunet, direttore generale del Bureau of International Recycling.
«Oggi i rifiuti sono una risorsa tanto quanto l’acqua, il carbone e il petrolio, e quindi vanno sfruttati»
La soluzione, quindi, non può essere quella di scaricare su altri paesi il peso dei nostri rifiuti. Di più: è necessario un cambio di mentalità. «Ciò che va capito è che noi in realtà non ci stiamo liberando di quei rifiuti, ma li stiamo vendendo. Oggi i rifiuti sono una risorsa tanto quanto l’acqua, il carbone e il petrolio, e quindi vanno sfruttati», aggiunge Brunet.
Se è vero che da un lato la produzione di plastica andrebbe sicuramente ridotta (l’Ue si è già attivata in questo senso, iniziando dalla restrizione sui sacchetti di plastica nel 2015 alla più recente messa al bando di alcuni prodotti di plastica usa e getta), dall’altro gli imperativi per trarre il massimo rendimento dalla plastica rimangono gli stessi: consolidare la produzione di rifiuti “migliori” e stimolare il mercato ad aumentare la domanda di prodotti riciclati.
E forse vi stupirà, ma l’Italia, in questo senso, è una best practice a livello internazionale: «in Italia produciamo ogni anno 2,2 milioni di tonnellate di plastica, e il nostro sistema ne recupera oltre l’80%», dichiara il presidente di Corepla. «Grazie al sistema del pagamento di un contributo ambientale da parte dei produttori (che va dai 150 ai 360 euro, a seconda di come l’imballaggio è costruito), noi raccogliamo, selezioniamo e rivendiamo la plastica riciclabile tramite aste, restituendo poi 300 euro a tonnellata per ogni Comune che fa la raccolta differenziata. L’anno scorso abbiamo ridato ai Comuni italiani 310 milioni di euro. Praticamente una piccola finanziaria».
Un circolo virtuoso tra pubblico e privato, insomma, che andrebbe preso a modello in tutta Europa. Che nel frattempo, sia chiaro, non se ne è comunque stata con le mani in mano: sul fronte della raccolta differenziata l’Ue se la cava bene, e al momento sul piatto della discussione per l’incentivazione del mercato ci sono anche la creazione di standard di qualità e certificazioni, l’idea di introdurre una riduzione dell’Iva sui prodotti riciclati, ed anche quella di introdurre un limite minimo di prodotto riciclato all’interno dei nuovi prodotti.
«Noi supportiamo queste iniziative perché vanno nella direzione giusta», conclude Brunet, il quale si dichiara ottimista nel lungo periodo: i sistemi di riciclaggio in Europa miglioreranno continuamente. E la Cina? «Al momento ci troviamo in un periodo di transizione, dove la Cina ha chiuso le sue porte e provocato uno tsunami nel mercato. Ma così facendo ha anche risvegliato la consapevolezza della necessità di investire nel riciclo e nelle nuove tecnologie. E anche se non succederà dalla sera alla mattina, molti paesi investiranno nella propria capacità di riciclo».