Alexandria Ocasio-Cortez è nella cucina di quella che presumibilmente è casa sua, davanti a sé ha un tagliere e mentre cucina guarda nella fotocamera del suo cellulare, parlando ai suoi follower in una diretta Instagram. Sembra quella che in inglese si chiamerebbe “small talk”, una chiacchierata, simile a quella che si farebbe in un bar. L’argomento è il cambiamento climatico, il futuro del pianeta e la necessità immediata di agire per cambiare le cose. Mentre butta via le bucce di una patata dolce, senza badare ai commenti che scorrono sullo sfondo, dice: “La comunità scientifica è concorde sul fatto che la vita dei bambini di domani sarà molto difficile. Questo porta i giovani a porsi una domanda legittima: è giusto avere ancora figli?”.
Ecco. Il punto del cambiamento climatico, per quanto buttato lì, tra un ortaggio e l’altro, è quello: su questo pianeta siamo troppi. La popolazione mondiale sta crescendo a ritmi inusitati, oggi siamo oltre 7,5 miliardi di persone e ben presto (gli esperti dicono entro il 2050) arriveremo ad essere 10 miliardi. Ma già oggi consumiamo risorse in maniera eccessiva rispetto alla loro disponibilità, tanto che ci servirebbero 2,5 pianeti Terra per vivere in maniera sostenibile. Cresciamo molto più in fretta delle risorse che consumiamo e inquiniamo, molte delle quali si sono formate nel corso di centinaia di migliaia di anni. Presto esauriremo le fonti di energia non rinnovabili e ancora non abbiamo implementato su larga scala metodi sostenibili di produzione energetica. L’impatto dell’uomo sull’ambiente è insostenibile, ma non solo perché consumiamo troppo. È Il fatto stesso di essere al mondo a costituire un problema.
La soluzione è una sola: dobbiamo ridurre il numero di persone sul pianeta. E a meno di ipotizzare soluzioni naziste (e tutto sommato poco praticabili), l’unico modo per farlo è limitare le nascite. Ad occuparsi proprio di questo è una delle più sconosciute (eppure importantissime) agenzie Onu: l’Unfpa, l’agenzia Onu per la salute sessuale e riproduttiva, fondata nel 1969. La strategia di questa istituzione è articolata in numerose azioni: family planning, cura materna, educazione sessuale, contrasto del fenomeno delle spose bambine, delle mutilazioni genitali femminili e della violenza di genere, tra le altre cose.
Ma c’è un aspetto che in tema di controllo demografico conta più di tutti gli altri: la contraccezione. «Oggi ci sono 215 milioni di donne al mondo che ogni anno rimangono incinte senza volerlo e che magari conoscono la contraccezione ma non la usano perché troppo costosa o non facilmente accessibile», spiega a Linkiesta Michele Usuelli, neonatologo impegnato per anni con Emergency in alcuni dei paesi più poveri del mondo e oggi consigliere regionale in Lombardia con Più Europa. «In Malawi, per esempio, fino a non molto tempo fa i contraccettivi a lunga durata d’azione [spirale, iniezioni, confetti sottocute, ndr] li distribuivano solo i medici, e quindi erano reperibili soltanto in ospedale. Ma in Malawi ci sono 100 medici iscritti all’ordine in un paese di 15 milioni di abitanti».
Il problema della cosiddetta provision of services, quindi, è prioritario. Nel caso del Malawi, spiega Usuelli, per fortuna sono state implementate politiche che hanno azzerato il costo dei contraccettivi o li hanno inseriti nei sistemi di mutua e di assicurazione; in combinazione con i training alle infermiere, ora gli anticoncezionali sono disponibili anche nei centri di salute (che sono uno ogni 20mila abitanti, contro gli ospedali che rimangono fermi a uno ogni 500mila abitanti). Insieme al Ruanda, l’Etiopia e il Ghana, il Malawi è una best practice in tema di prevenzione delle nascite. Ma non dappertutto è così: «nel mondo ci sono 39 Paesi con un tasso di natalità di oltre 4 figli per donna; di questi, 35 sono africani», specifica Usuelli. «Basti pensare che in Niger la media è di 7,3 figli per donna».
Come si sarà intuito, il problema è soprattutto africano. E in effetti basta guardare le statistiche di penetrazione della contraccezione della stessa Unfpa per rendersene conto.
In un continente che nel 1960 conteneva il 7% della popolazione mondiale e che nel 2030 arriverà al 17 (giusto per fare il confronto, l’Europa nello stesso periodo passerà dal 20 al 9), operare politiche di controllo delle nascite è essenziale. Anche perché lo squilibrio demografico ha conseguenze su tutti i livelli, non solo in termini ambientali, ma anche economici. «Tanti paesi africani hanno un Pil che cresce molto bene. Ma se la popolazione cresce più velocemente dell’economia, la qualità della vita diminuisce. Si tratta di paesi con tantissimi bambini, tanta forza lavoro, pochi anziani. Se si riuscisse a ridurre il tasso di natalità si garantirebbe uno sviluppo armonico e quindi sostenibile», spiega Usuelli.
In Africa (come nel resto del mondo), quindi, aumentare la copertura contraccettiva significa non solo contenere le nascite, ma anche garantire migliori possibilità di sviluppo economico, con conseguente riduzione delle migrazioni. E non sarà un caso, infatti, se la mozione recentemente presentata da Usuelli per lo stanziamento di 1 milione di euro per la contraccezione in Africa ha riscosso un grande successo, ricevendo supporto all’unanimità in regione Lombardia (che pure è a guida leghista). «Si tratta di una buona pratica politica replicabile su ogni scala; per questo invito tutti i consiglieri comunali, regionali e parlamentari a chiederci le nostre mozioni. Credo che quando si mette di fronte ad una destra anche estrema, il fatto che l’accesso alla contraccezione è un problema cruciale, si può evidentemente trovare un terreno comune». Anche al di là della religione: «non esiste alcun paese al mondo, cristiano o musulmano, che nel proprio ministero della sanità abbia scritto protocolli contro la contraccezione».
Concedere alle donne la possibilità di scegliere se avere figli o meno, in fondo, non è che parte di una strategia che mette al centro i diritti umani: dando maggiori opportunità di emancipazione, è efficace quanto qualsiasi altra politica di tutela della donna, dall’educazione sessuale al servizio di assistenza al parto, la lotta contro il child marriage e il diritto delle bambine di andare a scuola. «Tutte le determinanti su cui è bene lavorare per la riduzione della popolazione mondiale sono a partire dal rispetto dei diritti fondamentali. Questo contribuisce a togliere la donna dall’angolo e ha quindi conseguenze positive sulla sovrappopolazione», conclude Usuelli. «Al netto del problema dell’ambiente, la famiglia che vuole e può avere 12 figli deve continuare a poterlo fare, mentre chi non vuole avere figli deve continuare a poterlo fare. L’obiettivo deve essere offrire a tutti gli strumenti nel rispetto dei diritti per scegliere liberamente la propria family size».
Cosa replicare, quindi, alla parlamentare americana? La risposta più sensata, grosso modo, potrebbe essere questa: è vero che non possiamo permetterci di arrivare ad essere 10 miliardi sul pianeta, ed è vero che è imperativo ridurre il tasso di natalità mondiale. Ma forse, più che smettere di avere figli, dovremmo assicurarci che questi figli vengano al mondo nelle giuste condizioni: in fondo, se il miglioramento dei diritti della donna, dell’istruzione e dell’emancipazione portano già di per sé a tassi di natalità più contenuti, non sarebbe meglio agire su quei fattori, piuttosto che cercare di persuadere le persone a non diventare mai genitori?