Copyright e ora legale, siamo troppo pigri per capire cos’ha deciso il Parlamento europeo

In tanti sui social hanno già condannato le due votazioni del Parlamento europeo ieri. Ma non ci sarà nessuna abolizione dell'ora legale: gli Stati potranno decidere quale orario adottare nel 2021 e la direttiva sul diritto d'autore è imperfetta e da migliorare ma non certo liberticida

FREDERICK FLORIN / AFP

Abolita l’ora legale e messo il bavaglio alla libertà d’espressione in Rete. Descritte così, le due votazioni del Parlamento europeo di ieri sembrano un incrocio tra un colpo di Stato e la fiera dell’inutilità. Un’altra occasione per dire che le istituzioni europee si occupano delle cose più inutili e quando legiferano su temi importanti fanno solo danni. Un po’ per pigrizia intellettuale, un po’ per pregiudizio in molti hanno attacco con sdegno sui social l’Europarlamento senza veramente approfondire le due questioni. Ma la giornata di ieri si è veramente conclusa con una risoluzione insensata che danneggerà il nostro sonno e una direttiva che censurerà la Rete? Non proprio.

Partiamo dalla risoluzione sull’ora legale. Il Parlamento europeo non ha abolito un bel niente. Ha solo rinviato di due anni l’obbligo per gli Stati di scegliere quale orario adottare. I Paesi Ue che manterranno l’ora legale faranno l’ultimo cambio di orologio l’ultima domenica di marzo del 2021. Gli Stati che vogliono restare nell’orario solare dovranno cambiare l’ora definitivamente l’ultima domenica di ottobre del 2021. Quindi anche quest’anno rimarrà tutto invariato. E non servirà spostare le lancette avanti o indietro, a quello ci pensano già i nostri smartphone. Senza contare che la decisione non è definitiva: se i vari fusi orari scelti dagli Stati creeranno problemi per il mercato interno e la libera circolazione delle merci la decisione sarà rinviata di un altro anno o addirittura annullata. Perché la risoluzione non è un atto vincolante e prima che si arrivi a una legge europea c’è ancora tanta strada da fare. La Commissione europea e l’Europarlamento son d’accordo, ma manca il via libera del Consiglio, l’organo che riunisce i ministri dei 27 Paesi Ue a seconda del dossier da trattare. Gli Stati, come sempre, avranno l’ultima parola. Non si sa quante ore in più o in meno ma per ora potrete dormire sonni tranquilli.

Nei social molti hanno attaccato questa risoluzione sostenendo che il Parlamento europeo discute di cose inutili e fuori dalla realtà. L’ironia della cosa è che il voto nasce da un’iniziativa di alcuni cittadini europei per risolvere un problema pragmatico, non dalla decisione solitaria di qualche eurocrate nel suo ufficio di Bruxelles. Oltre 70mila finlandesi hanno firmato una petizione per abolire l’ora legale nel loro Paese e guadagnare un’ora di sole in più in inverno. Ma proprio una direttiva europea del 2000 impediva l’abolizione dell’ora legale, per evitare differenze negli Stati Ue. La Commissione europea ha accolto la proposta finlandese ma non l’ha imposta subito al Parlamento europeo. Nell’estate del 2018 ha organizzato una consultazione pubblica con un questionario online che ha ricevuto 4,6 milioni di risposte, il numero più alto di sempre. E l’84% degli intervistati si è dichiarato favorevole alla proposta.

La legge sul copyright è la migliore del mondo? No. Dovrà essere migliorata? Non c’è dubbio e di molto. Ma per troppo tempo con la scusa di voler mantenere Internet un posto libero per evitare di finire nel Grande Fratello di Orwell abbiamo lasciato che i produttori di contenuti si accontentassero delle briciole in cambio di visibilità

Ieri il Parlamento ha approvato anche la direttiva sul copyright che estende alle piattaforme online gli obblighi del diritto d’autore. Ovvero Google (YouTube e Google News) e Facebook (e Instagram) saranno responsabili dei contenuti che gli utenti caricano edovranno intervenire in caso di violazione del copyright. L’aspetto più interessante è che le piattaforme online dovranno negoziare con editori e artisti il pagamento di un compenso per l’utilizzo dei contenuti e di poterla ridiscutere se già ci sono stati accordi considerati troppo bassi rispetto alla media dei compensi. Ovviamente non rimarrà tutto in tasca agli editori: i giornalisti dovranno ottenere una quota delle entrate legate al diritto d’autore. Tradotto: i giganti del web dovranno condividere con i singoli autori i ricavi dei contenuti che hanno contribuito – e lo fanno tuttora – a renderli dei colossi.

Chiariamo due cose subito. Primo, i consumatori non rischiano niente. Chi leggerà questo articolo e lo vorrà condividere non dovrà pagare nessuna tassa. Secondo chiunque potrà continuare a condividere e mandare agli amici meme o Gif. I link agli articoli potranno essere condivisi liberamente dagli utenti o da piattaforme come Google News, aggiungendo solo piccoli frammenti del testo, chiamati in gergo snippet, ovvero singole parole o brevi estratti che accompagnano il titolo. Le citazioni, le critiche, le recensioni e le parodie sono escluse dalla direttiva così come i contenuti caricati nelle enciclopedie online senza scopi di lucro alla Wikipedia o piattaforme per la condivisione di software open source come GitHub. Oltre gli slogan, è difficile capire in quali punti della direttiva ci siano misure contro la libertà di espressione in Rete. Così com’è tutelato il libero accesso alla conoscenza visto che i contenuti utilizzati per l’insegnamento e la ricerca scientifica non rientrano nel provvedimento. La stessa Wikipedia ha ammesso di non essere toccata dalla direttiva quando ha oscurato per protesta la versione italiana del sito per un giorno intero.

Perché l’intervento decisivo per tutelare la libertà di espressione è stato fatto due mesi fa sul testo precedente che limitava di molto la possibilità di condividere contenuti online. Anche per questo è stata inserita una norma che tutela le piattaforme nate di recente che avranno meno obblighi rispetto a quelle più consolidate. Detto questo, è la legge migliore del mondo? No. Dovrà essere migliorata? Non c’è dubbio e di molto. Ma per troppo tempo con la scusa di voler mantenere Internet un posto libero per evitare di finire nel Grande Fratello di Orwell abbiamo lasciato che i produttori di contenuti si accontentassero delle briciole in cambio di visibilità.

Il Parlamento europeo ha approvato un concetto su tutti: una società è tenuta a pagare per il materiale che utilizza per realizzare profitti. Nel mondo offline, quello reale, è una cosa scontata. Dal proprietario del locale che paga la Siae (o soundreef) delle canzoni eseguite dalla band all’editore che remunerà chi scrive questo articolo. Perché non può esserlo anche per chi ci ha guadagnato molto in questi anni?

Poi bisognerebbe ricordare che si tratta di una direttiva. Quindi gli Stati sono obbligati a seguire delle linee guida vincolanti ma hanno una certa discrezionalità per raggiungere l’obiettivo. Tradotto: non devono farlo tutti nello stesso modo. E forse è questo il vero rischio, che ci siano 27 regolamenti differenti mentre l’obiettivo iniziale era quello di avere un’armonia comune su come tutelare la creatività. Senza contare che gli Stati avranno tempo di farlo fino al 2021 perché l’accordo approvato dal Parlamento europeo dovrà essere ancora formalmente approvato dal Consiglio ed entrerà in vigore fra due anni.

I paladini dell’ottimo è il nemico del bene hanno ragione a criticare alcuni aspetti della direttiva, soprattutto l’articolo 17, ovvero la parte relativa ai filtri (e gli algoritmi) che le piattaforme online dovranno usare per monitorare i contenuti protetti da copyright. Anche se molti nei social si riferiscono all’articolo 13, segno che gli slogan sono ancora fermi al vecchio testo. Perché la vera incognita è come Google e Facebook si adegueranno. La direttiva vieta esplicitamente agli Stati membri di imporre alle piattaforme online un obbligo generale di sorveglianza dei contenuti caricati dagli utenti.​ Ma il diavolo si nasconderà nei dettagli come hanno ammesso i vertici del colosso di Mountain View in una nota: «La direttiva sul copyright è migliorata, ma porterà comunque ad incertezza giuridica e impatterà sulle economie creative e digitali dell’Europa. I dettagli contano e restiamo in attesa di lavorare con politici, editori, creatori e titolari dei diritti mentre gli Stati membri dell’Ue si muovono per implementare queste nuove regole».

Youtube e Facebook usano già dei filtri automatici che potrebbero oscurare spesso dei contenuti legittimi. E senza l’intervento umano – impossibile per il volume di contenuti caricati – il rischio aumenta. Ma non si capisce perché bisogna prenderserla con chi ha fatto la legge piuttosto che con chi la deve eseguire e non ha ancora la tecnologia adatta. Il Parlamento europeo ha approvato un concetto su tutti: una società è tenuta a pagare per il materiale che utilizza per realizzare profitti. Nel mondo offline, quello reale, è una cosa scontata. Dal proprietario del locale che paga la Siae (o soundreef) delle canzoni eseguite dalla band all’editore che remunerà chi scrive un articolo sul cartaceo. Perché non può essere così anche per chi ci ha guadagnato molto in questi anni promuovendo questi contenuti?

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