Mohamed Hossameldin, 35 anni, egiziano da più di vent’anni in Italia, regista e videomaker. Ha rappresentato il nostro Paese al più importante festival di cortometraggi al mondo, quello di Clermont-Ferrand — «Se l’Italia fosse un Paese così razzista non avrebbero mandato me. È solo che dovete abituarvi a noi» — ed è in corsa al prestigioso premio David di Donatello con il corto Yousef, un film che racconta le paure e i pregiudizi di un afroitaliano al giorno d’oggi.
Mohamed Hossameldin, quando è arrivato in Italia?
«Stabilmente nel 1997, quando avevo 14 anni. Ma era già tre anni che tutte le estati passavo tre mesi a Roma. Mio padre si era trasferito nel 1991 quando ha aperto un’autorimessa. Pochi anni dopo ci siamo trasferiti con tutta la famiglia».
Un adolescente egiziano a Roma in quegli anni. Non sarà stato facile…
«Roma è una città bellissima. Non conoscevo la lingua, non avevo amici né parenti. Difficile per chiunque a quell’età. Per fortuna avevo vissuto tutta la mia vita ad Alessandria d’Egitto, una città di mare non molto lontana dalla cultura occidentale. Sarebbe stato più sconvolgente se fossi arrivato dall’Arabia Saudita. E poi in Egitto avevo studiato alla scuola inglese».
In Italia che scuole ha fatto?
«Mi sono iscritto alla scuola araba dove ho frequentato il liceo».
Scuola inglese ad Alessandria, araba a Roma. Perché?
«La scuola inglese di Roma costava troppo. Mio padre diceva che la scuola araba era meglio perché alla fine saremmo tornati presto in Egitto. Non era vero e lo sapeva pure lui. La scuola araba per me è stata devastante. Era frequentata soprattutto dai figli dei diplomatici. Difficile integrarsi. Forse sarebbe stata meglio la scuola italiana. Più vicina alla mia formazione culturale. E poi ho capito subito che non sarei mai tornato a vivere in Egitto. I primi anni non volevo andarci nemmeno d’estate. Volevo essere italiano. La mia nuova vita è stata come una rinascita».
Le sue radici dove sono, in Egitto dove è nato o qui in Italia dove è cresciuto?
«È un problema che non si risolve mai. Nella mia vita quotidiana mi sento italiano. Ma quando vado al Sud, tra i miei amici e i miei parenti riemergono forti quei vincoli che fanno parte della mia cultura originaria. Il rispetto della famiglia, dei genitori…».