Occident Ex-PressDopo la tempesta: ecco come il Triveneto sta ricostruendo le sue foreste (più diverse e più naturali)

La tempesta “Vaia” che si è abbattuta sul triveneto a ottobre 2018, abbattendo oltre 45mila ettari di foresta, è stata un disastro senza precedenti. E quel che è peggio è che si ripeterà. La soluzione per la riforestazione? Piantare specie diverse di alberi, soprattutto faggi, larici e abeti bianchi

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“L’evento di maggior impatto agli ecosistemi forestali mai registrato fino ad oggi in Italia”. Così l’hanno definita 47 fra ricercatori, scienziati e tecnici forestali coordinati dall’Università di Firenze, parlando della depressione che sabato 27 ottobre 2018 si è sviluppata tra il Baltico e il Mediterraneo occidentale.

Il 15 febbraio hanno pubblicato un articolo sulla Rivisita italiana di Selvicoltura ed Ecologia forestale per fare il punto e la stima dei danni alle foreste italiane creati dalla cosiddetta tempesta “Vaia”. In triveneto e nel nord-est l’evento meteo («d’intensità definibile come epocale, nel senso di fuori dalle statistiche storiche di un determinato territorio» lo ha definito nei giorni successivi la meteorologa Serena Giacomin intervistata da Linkiesta) ha portato venti a 200 chilometri orari. Solo in Friuli sono caduti 900 ml di pioggia in 72 ore, più di quanta ne cada a Milano in un intero anno. La fotografia fatta dai 47 esperti ora parla di 494 comuni interessati da “Vaia”. Danni consistenti o la completa distruzione del bosco hanno riguardato 42.525 ettari di superficie forestale e circa 8,5 milioni di metri cubi di legname caduto a terra. La stima non è definitiva ma a oggi le regioni più colpite per ordine di grandezza sono Trentino, Veneto, Lombardia, Alto Adige e Friuli. È stata la prima volta di un evento di questa intensità a sud delle Alpi. Non l’ultima. Chi studia il clima e i cambiamenti climatici è concorde: può ricapitare di avere venti a quelle velocità e piogge di quell’intensità. Le domande quindi ora diventano altre: che fare oggi per ricostituire le foreste danneggiate? Quale tipo di pianificazione mettere in atto per ottenere boschi che, di fronte a eventi come “Vaia” in futuro, subiscano danni ambientali ed economici minori?

«La diversità del bosco può fare la differenza» – dice a Linkiesta il professore Gherardo Chirici dell’Università di Firenze, che ha coordinato per conto del ministero il gruppo di lavoro di 47 esperti incaricato di stimare i danni, a partire dalle immagini satellitari a disposizione –. La quantità di danni più elevata si è verificata perché abbiamo delle superfici di bosco tutte uguali, anche a causa di scelte prese negli anni ’30, ’40 e ’50 in contesti differenti da quelli di oggi». Per Chirici «la monocoltura crea problemi, mentre i boschi misti, non solo per composizione delle specie ma anche per struttura ed età come sono quelli che crescono naturalmente, di fronte alle raffiche di vento interrompono l’effetto domino delle piante che cadono l’una sull’altra». «Nessuno ha delle verità certe in tasca, perché gli effetti delle scelte prese oggi si vedono almeno fra 100 anni, ma una gestione più orientata a una maggiore naturalità dei boschi crea superiore resistenza a qualunque agente di disturbo, che siano i danni del vento o gli incendi».

«Con venti a 160 chilometri orari non c’è bosco che tenga – dice Alessandro Wolynski, responsabile dell’ufficio Pianificazione, Selvicoltura ed Economia Forestale della Provincia Autonoma di Trento –. Ma è inevitabile che bisognerà ripensare non tanto alla pianificazione in sé, quanto alla modalità e alla forma della pianificazione». Esempi? «Ci sono situazioni sul territorio trentino in cui l’abete rosso è caduto, mentre il larice è rimasto in piedi perché ha un apparato radicale che si ancora meglio al terreno. Mettere larice al posto dell’abete rosso è qualcosa che verrà fatto, come primo inizio di rimboschimento».

Nella modalità ordinaria di pianificazione forestale la possibilità di eventi eccezionali, come schianti di grandi dimensioni, generalmente non viene contemplata, non si prevedono misure specifiche. Per questo siamo arrivati impreparati a “Vaia”, mentre già nel 1999 in Francia e Germania sono caduti a terra più di 150milioni di metri cubi di legname, quindici volte tanto le cifre di cui stiamo parlando oggi

Di certo la Provincia di Trento non punta a intervenire artificialmente dappertutto. «Non è fattibile per i costi di ripristino che considerando le migliori condizioni possibili ammonterebbero a 100 milioni di euro – spiega Wolynski: Quindi per una certa quota ci si baserà sulla rinnovazione spontanea e la capacità della natura di recuperare spazio, partendo dai boschi limitrofi. Allo stesso tempo lasciare che sia solo la natura a fare il suo corso e trovare equilibri può anche essere teoricamente corretto, ma dal punto di vista pratico comporta problemi: la protezione dei terreni sottostanti, degli abitati e delle case. Per quei luoghi non possiamo permetterci di aspettare 20 anni in più».

«Lasciar fare tutto alla natura? È azzardato» dice Francesco Della Giacoma, ex responsabile del demanio forestale Fiemme-Primiero (fra i più colpiti dalla tempesta) e oggi vice Presidente di Pefc Italia, la più grande organizzazione al mondo di certificazione forestale. «In prospettiva dei cambiamenti climatici avere la rinnovazione naturale significa anche ottenere un patrimonio genetico più ricco di piante alpine e di certo è una rinnovazione che crea spazi per le specie pioniere. Ma dal punto di vista idrogeologico ci sono aree specifiche in cui è necessario integrare subito le protezioni per caduta massi o valanghe in base a pendenza, esposizioni, quote». Sulla ricostituzione del bosco dice Della Giacoma che «la selvicoltura è già cambiata: un tempo si piantavano solo pini e abeti rossi, sopratutto dopo la prima Guerra Mondiale, mentre ora c’è spazio per boschi meno coetanei (dove non tutte le piante hanno la stessa età, NdR) e più irregolari» e che tuttavia «non si può pensare di lasciare il ciclo naturale su 40mila ettari, perché si rischiano pesanti attacchi parassitari».

Cosa piantare? «Spazio per le specie come larice, a certe condizioni il faggio ma anche l’abete bianco è interessante per integrare e creare dei nuclei, perché ha un apparato radicale più resistente. Non è in discussione la selvicoltura degli ultimi 50 anni, però la pianificazione deve tenere conto del fatto che eventi come “Vaia” possono succedere ancora, quindi serve maggiore flessibilità». Più in generale «ci sono due ordini di problemi e preoccupazioni – spiega Davide Pettenella, docente del Dipartimento Territorio e Sistemi Agroforestali all’Università di Padova –. Il primo è che nella modalità ordinaria di pianificazione forestale la possibilità di eventi eccezionali, come schianti di grandi dimensioni, generalmente non viene contemplata, non si prevedono misure specifiche. Per questo siamo arrivati impreparati a “Vaia”, mentre già nel 1999 in Francia e Germania sono caduti a terra più di 150milioni di metri cubi di legname, quindici volte tanto le cifre di cui stiamo parlando oggi».

«Il secondo – prosegue Pettenella – riguarda gli indirizzi gestionali: l’attenzione alla diversificazione delle specie e alla creazione di foreste miste c’è stata negli ultimi decenni, però va considerato il gap crescente fra ciò che viene prescritto sulla carta e ciò che si fa concretamente, sopratutto nella logica del non fare e dell’abbandono. I tagli vengono effettuati solo quando convengono e per questa ragione c’è chi va in giro dicendo che la natura ha fatto ciò che l’uomo non ha avuto il coraggio di fare: sulle quote elevate è un conto, ma in zone di fondo falle e sulle quote basse non si può fingere che non ci sia una responsabilità gestionale sui boschi molto densi, coetanei e mono specifici che sono caduti».

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