Immagina di svegliarti una mattina e decidere che, da quel momento in poi, dirai tutto quel che ti passa per la testa, con la massima sincerità, a tutti. Che a qualsiasi cosa ti si pari davanti agirai come se non avessi nulla da perdere. Come se tanto, male che vada, il tuo piano B fosse ammazzarti. Liberatorio no? Ecco, è sostanzialmente quello che fa il protagonista di After Life, la nuova serie di Ricky Gervais prodotta da Netfix, in cui il comico inglese interpreta un giornalista di un quotidiano locale della provincia britannica che, dopo la morte della moglie, non prova più nessuna empatia per nessuno, tranne che per il suo cane e per il suo nipotino. Non ha più niente da perdere.
Grazie a questa mancanza di empatia e, di conseguenza, a questa sua sincerità travolgente, Tony è a tutti gli effetti un supereroe. Un supereroe che non vola, non lancia ragnatele dai polsi e non è dotato di forza bruta o di arti che si allungano. Il suo superpotere è fregarsene, di tutto e di tutti.
È stronzo con il suo psichiatra, con il suo pusher, con la prostituta che insiste per essere chiamata “sex worker” ma che lui paga soltanto per pulirgli casa. Fa i dispetti al postino hippy, fa a pezzi ogni entusiasmo del suo direttore, prende in giro i difetti tutti i colleghi con cinismo. È una merda persino con i bambini, come il piccolo ciccione che bullizza suo nipote. Se ne frega talmente tanto di sé che nemmeno dei ladri che lo minacciando riescono a fargliela.
Tony è un supereroe che non vola, non lancia ragnatele dai polsi e non è dotato di forza bruta o di arti che si allungano. Il suo superpotere è fottersene, di tutto e di tutti.
«Non c’è alcun futuro brillante nel giornalismo», fa a un certo punto alla stagista, a cui il direttore ha appena prospettato un futuro radioso nella professione. E continua: «Nel tempo che ti ci vorrà per diventare una firma non ci saranno nemmeno più i giornali come li intendiamo oggi, ci sarà soltanto la tempesta di merda di internet. Gente che scriverà solo opinioni cattive e fottutamente odiose, opinioni che non sono manco le loro, ma che sono dettate dai loro capi per attirare click per i loro sponsor del cazzo. Perché il mondo è pieno di fottute teste di cazzo. È orribile, è un futuro di merda».
Il suo livello di schiettezza e sincerità è al 200%. Ti verrebbe da entrare nello schermo e abbracciarlo forte se solo potessi. Ed è così praticamente ad ogni frase, ad ogni volta che tira fuori la battuta giusta, ovvero sempre. Tutti in fondo sogniamo di avere sempre la battuta pronta, di avere il coraggio di dire tutto quello che pensiamo veramente al nostro capo, ai nostri colleghi, ai passanti, a chiunque, fregandocene di dover essere gentili, di non dover ferire nessuno, di dover star simpatici e di essere diplomatici, pacifici per forza, senza mai cercare lo scontro.
«Sei come i troll su Twitter», gli fa notare a un certo punto l’infermiera scozzese che lavora nella casa di riposo in cui vive il padre dopo uno dei suoi rant: «visto che tu stai male vuoi che tutti intorno a te stiano male». E in parte è vero. Tony è un troll, è un hater di sé stesso prima che degli altri, e in fondo è proprio per questo che è irresistibile e che, man mano che la serie avanza, il suo essere troll evolve e diventa qualcos’altro, come una specie di anticorpo.
Tony è un troll, ma è un hater di sé stesso, prima che degli altri, e in fondo è proprio per questo che è irresistibile
Il personaggio cinico e bastardo scritto da Ricky Gervais, anche se del troll sembra avere tutte le caratteristiche, è infatti l’antidoto contro quel fare meschino, quella risata sarcastica di fronte a tutto e di fronte a tutti, contro quel modo di fare che, soprattutto in rete, sta distruggendo ogni possibilità di dialogo su qualsiasi argomento. Quello che Tony non ha, rispetto ai troll, è un problema con il suo ego. Tony non è uno sfigato che si fa i selfie. Non è affetto dalla sindrome cazzolunghista da maschio alfa, ovvero la volontà di distruggere quel che non si è grado di avere.
Con leggerezza, Gervais riesce a buttare fuori dalla porta a calci nel sedere il buonismo per farlo rientrare, più forte dalla finestra, in modalità navy seals. After Life, in questo senso, è la serie dramedy perfetta, un po’ come l’altra perla dell’ultimo anno, Il metodo Kominsky. Entrambe, anche se in modi diversi e con toni diversi, riescono a parlare dei macigni della vita – la morte, la malattia, la solitudine, il senso dell’esistenza – con leggerezza, con intelligenza, ma anche con rara profondità. Il tutto senza allungare il brodo di un solo minuto più del necessario, cose che quando si parla di serialità televisiva è ormai praticamente un miracolo.