L’aumento dell’Iva mette a rischio i ceti medio bassi e il turismo italiano

L'economista Giampaolo Arachi: “Se aumenta l'Iva ridotta pagheranno sopratutto ristoratori e albergatori. Il nostro settore turistico sarebbe meno competitivo. Serve una riforma dell'Irpef per creare una base imponibile ampia, facile da accertare per distribuire il carico fiscale in maniera equa”

Le clausole di salvaguardia sono la spada di Damocle dell’economia italiana. Se scattano vuol dire che il Governo non è riuscito a trovare le coperture economiche per realizzare le promesse elettorali. Tradotto: aumenterebbero automaticamente l’Iva e le accise, imposte difficili da evadere e utili a garantire il gettito fiscale necessario per far quadrare il bilancio dello Stato. Le ha previste per la prima volta il governo Berlusconi nel 2011 come ultima garanzia per ottenere più flessibilità dalla Commissione europea. Sette anni dopo il governo gialloverde ha fatto lo stesso. In mezzo i presidenti del Consiglio Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, sono sempre riusciti a disinnescarle. Ma ora sono arrivate a 25 miliardi e se il Governo non troverà le coperture scatteranno per la prima volta rischiando di compromettere la crescita dell’economia italiana. I vicepresidenti del Consiglio Matteo Salvini e Luigi Di Maio hanno promesso che non aumenteranno l’Iva, ma il ministro dell’Economia Giovanni Tria più volte non ha escluso un effetto “virtuoso” della tassazione sui consumi. Ed è lui a scrivere la legge di bilancio a fine anno. Secondo il Codacons l’aumento dell’Iva “ridotta” dal 10% al 13% e quella ordinaria dal 22% al 26,5%, costerà 1200 euro in più a famiglia all’anno. Senza contare i costi indiretti per energia e trasporti. Ma cosa succederebbe concretamente se aumentasse l’Iva? Lo abbiamo chiesto a Giampaolo Arachi, professore di Scienza delle finanze dell’Università del Salento e membro del centro di ricerca Dondena, dell’Università Bocconi di Milano.

Arachi, cosa succede se aumenta l’Iva?
L’incremento delle imposte sui consumi potrebbe incidere negativamente sulla crescita perché siamo in una fase di rallentamento dell’economia e avrebbe un effetto pro- ciclico. Ci rimetterà di più chi ha un reddito medio basso perché l’Iva è un’imposta regressiva, la pagano tutti i consumatori, ricchi o poveri, allo stesso modo. Ma non saranno gli unici a soffrire le conseguenze.

Chi altri?
Alberghi e ristoranti. Perché aumenterebbe anche l’Iva ridotta, un’imposta che si applica al settore turistico, Anche se sono erogati in Italia questi servizi sono consumati da non residenti e si tratta di fatto di esportazioni. Se aumentasse l’aliquota ridotta (dal 10% al 13%, ndr) il nostro settore turistico sarebbe meno competitivo rispetto a quello di altri Paesi.

Eppure il ministro Tria sostiene che la tassazione sui consumi può essere virtuosa.
Teoricamente la tassazione sui consumi dovrebbe essere più favorevole alla crescita. E avrebbe due effetti positivi. Nel breve periodo ridurre il carico fiscale spostandolo sui consumi avrebbe lo stesso effetto di una svalutazione valutaria. Perché l’Iva viene pagata sui beni prodotti in Italia così come quelli importati, mentre le imposte sul lavoro gravano soltanto sulla produzione interna. Con un’imposta aumentata su tutti i beni, compresi gli esteri si abbasserebbero i costi per le imprese che producono all’interno e i beni interni sarebbero più competitivi. Ma questa operazione non funziona quando parliamo di settori che esportano vendendo agli stranieri in Italia, come il settore turistico.

E nel lungo periodo?
Secondo alcuni economisti le imposte sul consumo sono meno distorsive perché producono meno effetti disincentivanti rispetto a quelle sul lavoro. Quindi nel lungo periodo una tassazione basata sui consumi potrebbe favorire la produttività e la crescita dell’economia. Ma ripeto, questo teoricamente. Poi esiste la realtà e gli studi empirici non forniscono una risposta chiara. Ma c’è una domanda che dobbiamo porci prima di parlare di riforma fiscale.

Non si può ridurre la pressione fiscale senza una riduzione unica dei servizi. L’idea che ci siano sacche di inefficienza così rilevanti che possiamo tagliare per risparmiare e abbassare la pressione fiscale non sta più in piedi


Gianpaolo Arachi

Quale?
Capire se vogliamo mantenere, aumentare o diminuire il nostro welfare e il nostro standard di servizi pubblici. Perché se vogliamo mantenerlo al livello di oggi sarà necessario aumentare la pressione fiscale. Questo bisogna chiarirlo: non si può ridurre la pressione fiscale senza una riduzione unica dei servizi. L’idea che ci siano sacche di inefficienza così rilevanti che possiamo tagliare per risparmiare e abbassare la pressione fiscale non sta più in piedi.

Quindi lei è contrario alla spending review.
Tutt’altro: è necessario razionalizzare sia la spesa sia le tax expenditures ma non credo che si otterrebbero risparmi significativi per ridurre la pressione fiscale in maniera strutturale. Per farlo bisognerebbe tagliare significativamente il livello di servizi a cui siamo abituati. Sicuri che tutti gli italiani sarebbero d’accordo? Bisognerebbe toccare i tre pilastri della spesa pubblica: le pensioni, la sanità e il personale pubblico.

Perché non si può fare?
Negli ultimi decenni i governi hanno riformato più volte il sistema pensionistico fino ad arrivare alla legge Fornero. Ma questo governo con Quota 100 non sembra voler diminuire la spesa per le pensioni. La spesa per i dipendenti pubblici è stata ridotta in questi anni anche con il blocco del turnover e lì non sembra esserci grande spazio per ridurre granché.

Resterebbe la Sanità.
Non credo che sopporterebbe altri tagli. Ne ha subiti molti in questi anni e probabilmente siamo arrivati al limite. Non scordiamoci che la nostra sanità quando viene comparata con quella degli altri Paesi è virtuosa ed efficiente perché riesce a ottenere uno standard molto alto di prestazioni nonostante un livello di spesa basso se confrontato con gli altri competitori.

Quindi gli italiani dovranno continuare ad avere una delle pressioni fiscali più alte del mondo.
C’è troppa enfasi sul problema della pressione fiscale. I Paesi scandinavi hanno avuto un periodo di crescita economica significativa anche con pressioni fiscali alte. Quando si discute di imposte non importa quanto siano elevate ma se sono eque, efficienti e se intralciano il meno possibile l’attività economica. Dal punto di vista fiscale non conta tanto la pressione ma su come le imposte vengono applicate. E se vogliamo un sistema fiscale più equo c’è solo una strada.

Quale?
Fondare tutto su un’unica grande imposta che sia centrale nel sistema. Bisogna pensare a una riforma radicale dell’Irpef che vada al di là del dibattito sulle aliquote.

E come?
Primo ampliando la base imponibile. Il nostro sistema fiscale negli ultimi anni è stato continuamente modificato introducendo un’enorme varietà di regimi speciali e trattamenti sostitutivi. A parte i redditi di capitale, cioè quelli che derivano da rendite finanziarie che hanno già una loro flat tax, tutte il resto bisognerebbe riportarlo all’interno dell’Irpef. Ma questo vorrebbe dire andare nella direzione opposta a quella presa dagli ultimi governi.

Cosa c’è che non va nell’Irpef di oggi?
Serve una misura del reddito più attendibile. Oggi l’Irpef è un’imposta progressiva sui soli redditi da lavoro. Nel lungo periodo sarà difficilmente sostenibile. Perché il lavoratore dipendente deve pagare un’imposta progressiva mentre gli altri pagano invece imposte con una progressività minore o con aliquote diverse? Il nostro obiettivo primario non deve essere discutere di flat tax, una, due o tre aliquote o tre aliquote. Ma dobbiamo costruire una base imponibile ampia, facile da accertare e che consenta di distribuire il carico fiscale in maniera equa.