L’operazione verità che gli era stata impedita nell’autunno scorso quando aveva presentato la legge di bilancio, Giovanni Tria l’ha messa in campo nel Documento di economia e finanza discusso ieri dal consiglio dei ministri. Il prodotto interno lordo che, stando alle mirabolanti previsioni autunnali, doveva crescere dell’1,5% si fermerà invece allo 0,1% nello scenario tendenziale e dello 0,2% in quello programmatico, ciò vuol dire che le misure come quelle annunciate dal decreto sulla crescita aggiungeranno poco o niente. Aspettate, aspettate, gufacci della malora, vedrete che botto ci sarà nel 2020! Vediamo: lo scenario tendenziale annuncia una ripresina allo 0,6% quello programmatico allo 0,7%. Ma come, non c’è la flat (pardon dual) tax? Non c’è lo sblocca cantieri, il salario minimo e tutto il resto? Possibile che 133 pagine di annunci producano solo un 0,1% in più. Non può essere possibile. E non lo sarà. Ma bisogna aspettare, avverte il testo, la Nota di aggiornamento, debbono passare insomma le elezioni di maggio, e bisognerà vedere che cosa entrerà, e come, nella prossima legge di bilancio. Il Def a questo punto è un puro esercizio teorico.
C’è una terza tabella che si discosta in parte dalle prime due e valuta l’effetto del reddito di cittadinanza. Dovrebbe aggiungere uno 0,2% al pil quest’anno, uno 0,4 nel 2020 e uno 0,5 nel 2021. Ciò per effetto dell’aumento dei consumi. Ma le cose non vanno bene dal lato del lavoro. Il tasso di disoccupazione quest’anno sale dal 10,6 all’11% e anche l’occupazione cala. Ci sarà un leggero miglioramento dell’occupazione l’anno prossimo mentre peggiora la disoccupazione perché aumenta il numero di persone che vanno a chiedere lavoro. È uno dei marchingegni che più piacciono al governo e che dovrebbe dare una spinta statistica al pil. Il Def scrive che l’occupazione nel 2022, «risulterebbe maggiore di 1,1 punti percentuali rispetto ai livelli dello scenario base, con un numero maggiore di occupati pari a circa 260 mila unità». Una noticina, però getta acqua sul fuoco e definisce l’aumento «troppo ottimistico alla luce delle evidenze empiriche recenti per l’Italia sull’incidenza dei posti di lavoro vacanti sul numero degli occupati (vacancy rate). Tale incidenza è pari infatti a circa 1,2 punti percentuali, un livello solo di poco inferiore all’incremento percentuale dell’occupazione dell’1,1 per cento previsto nel 2022. È, tuttavia, utile tenere presente che l’altra riforma contenuta nella legge, quella sul trattamento di pensione anticipata (‘Quota 100’), dovrebbe verosimilmente condurre a un aumento non trascurabile del vacancy rate in concomitanza con le decisioni individuali di pensionamento anticipato».
La via maestra per ridurre il debito passa per l’attivo di bilancio al netto per interessi. Ma è proprio quello che l’Italia ha evitato di fare quando c’era la ripresa, figuriamoci adesso che c’è la stagnazione e con i giallo-verdi in plancia di comando
Tra condizionali e verosimiglianze, «si può ipotizzare che tale incremento nell’occupazione, riconducibile in parte alla maggiore fluidità del mercato del lavoro indotta dal potenziamento dei centri per l’impiego, risulti più pronunciato per le fasce di individui con minori competenze ed esperienza, il che si accompagnerebbe a un calo della produttività media del lavoro rispetto allo scenario base. È quanto emerge per il 2022, in cui il prodotto per occupato risulterebbe inferiore di 0,6 punti percentuali rispetto allo scenario base. Il tasso di disoccupazione si accrescerebbe fino a raggiungere nel 2020 un livello superiore rispetto allo scenario base di 1,3 punti percentuali». Dunque, la produttività media scende per effetto anche del reddito di cittadinanza. Perfetto. Il quadro non si fa certo più roseo venendo ai conti pubblici. Nel 2019, si legge ancora nella bozza, l’indebitamento netto tendenziale del 2019 è ora previsto pari al 2,5% del pil. Nell’aggiornamento di dicembre era proiettato al 2% del pil. La revisione al rialzo riflette per 0,4 punti percentuali la minore crescita nominale. Nel triennio 20202022, lo scenario di finanza pubblica a legislazione vigente prevede un deficit che scende al 2,1% del pil nel 2020 e all’1,8% nel 2021. Di conseguenza, il saldo strutturale peggiorerebbe di 0,2 punti percentuali nel 2019, ma sarebbe di fatto invariato considerando la flessibilità concordata a fine anno con la Commissione Europea. Migliorerebbe di 0,4 punti nel 2020 e 0,2 punti nel 2021, per poi peggiorare di 0,2 punti nel 2022.
Il dato più allarmante, non solo e non tanto per Bruxelles, ma per i mercati è il rapporto debito/pil che nel 2018 è già salito al 132,1%, dal 131,3 del 2017. L’aumento è dovuto alla bassa crescita del pil nominale, ma anche, per oltre 0,3 punti, all’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro. Il rapporto salirà ancora quest’anno al 132,7% del pil, per tornare a al 131,7% nel 2020. Si continua a ipotizzare proventi da privatizzazioni pari allo 0,3 per cento del pil nel 2020, oltre all’uno per cento previsto per quest’anno, ma il debito continua a salire spinto dalla sostanziale stagnazione del prodotto lordo, da rendimenti reali relativamente elevati dei titoli pubblici (quel maledetto spread, insomma, non vuol proprio andarsene) e da un surplus primario che resterebbe lievemente al disotto del 2 per cento del pil. Questo è il punto chiave che verrà sollevato nelle discussioni con l’Unione europea. La via maestra per ridurre il debito, al netto di interventi straordinari e di riduzioni del perimetro dello stato, passa per l’attivo di bilancio al netto per interessi. Ma è proprio quello che l’Italia ha evitato di fare quando c’era la ripresa, figuriamoci adesso che c’è la stagnazione e con i giallo-verdi in plancia di comando.