Erdogan in crisi? Andiamoci piano: Istanbul e Ankara non sono la Turchia

Valeria Talbot, analista dell'Ispi: "Il voto è significativo e legato all'andamento dell'economia. Il popolo turco è scontento per l'aumento dei prezzi e la perdita del potere d'acquisto. Ma il presidente ha ancora il forte consenso delle piccole e medie imprese nell'Anatolia centrale"

BULENT KILIC / AFP

Recep Tayyip Erdoğan ha perso le elezioni amministrative in Turchia e non è stato un pesce d’aprile. Mart’in sonu bahar oldu (A fine marzo è arrivata la primavera) hanno ripetuto per settimane i partiti d’opposizione durante la campagna elettorale. Puntavano a vincere nelle grandi città per incrinare il consenso granitico che dal 2002 ha l’Akp guidato da quasi due decenni dal super presidente. E ci sono riusciti. Il 31 marzo il Cumhuriyet Halk Partisi, il partito laico erede di Ataturk, ha riconquistato Ankara dopo 25 anni, confermato la guida di Smirne, e per qualche migliaio di voti ha vinto anche a Istanbul, battendo Binali Yıldırım, fedelissimo di Erdogan, ex premier e presidente del Parlamento turco. I laici hanno vinto anche ad Adana, Hatay, Antalya e Mersin. Una disfatta completa? Non proprio. L’Akp è ancora sopra il 50% a livello nazionale, anche se in calo, ma non perdeva un’elezione amministrativa o generale dal 2003, quando Erdogan diventò primo ministro. Per molti osservatori, oggi la Turchia sembra una democrazia meno illiberale ma i suoi oppositori non possono ancora esultare del tutto. «La sconfitta del 31 marzo rischia di essere solo una parentesi» spiega Valeria Talbot, analista dell’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale.

Talbot, questa sconfitta è l’inizio della fine del governo Erdogan?
Non penso sia l’inizio del tracollo di Erdogan, ma una parentesi politica. Anche perché si tratta di una serie di elezioni locali. E fino al 2023 non ci saranno altre votazioni.

Però l’Akp non perdeva un’elezione dal 2003.
Certo, il voto del 31 marzo è un segnale importante di cambiamento nel Paese, ma non penso sia il risveglio di una coscienza politica contro Erdogan. Il malumore nasce dal deterioramento dell’economia che è stato il motivo del successo elettorale dell’Akp per 16 anni. Il voto è l’unico modo che avevano i cittadini per far capire al governo che così com’è, non si va avanti.

Cos’è successo alla Turchia?
È entrata in recessione. La scorsa estate ha avuto una gravissima crisi valutaria con una forte svalutazione della lira nei confronti del dollaro. Per questo a ottobre l’inflazione è arrivata al 25% per poi fermarsi a fine anno intorno al 20%. Tutto questo ha avuto un forte impatto negativo sulla popolazione

Eppure fino a pochi anni fa cresceva a ritmi sostenuti.
Sì, una media del 5% all’anno tra il 2002, (anno in cui è salito al Potere Erdogan, ndr) e il 2012. Poi ci sono stati alti e bassi ma nel 2017 la crescita è stata del 7,4%. Però si trattava di una crescita trainata dal settore delle infrastrutture, non dalla produzione. Per questo quando lo Stato ha smesso di finanziare gli investimenti e in contemporanea sono arrivati i dazi degli Stati Uniti sui prodotti turchi, l’economia ha iniziato a rallentare. Sono aumentati così tanto i prezzi dei prodotti alimentari che a febbraio il governo ha aperto a Istanbul e Ankara dei punti vendita di ortaggi, la base della cucina turca, a prezzi scontati perché sovvenzionati al governo, ma non so quanto saranno sostenibili dal punto di vista economico.

il voto del 31 marzo è un segnale importante di cambiamento nel Paese, ma non penso sia il risveglio di una coscienza politica contro Erdogan. Il malumore nasce dal deterioramento dell’economia che è stato il motivo del successo elettorale dell’Akp per 16 anni. Il voto è l’unico modo che avevano i cittadini per far capire al governo che così com’è, non si va avanti

Non è un caso che proprio a Istanbul e Ankara il governo abbia perso.
Ma già nel 2017 avevano espresso un voto in controtendenza rispetto al resto del Paese. La maggioranza nelle due città aveva votato no alla proposta di riforma costituzionale che diede più poteri a Erdogan. E poi si sono presentati dei candidati strategici. Mansur Yava che ha vinto ad Ankara per il partito repubblicano ha militato in passato nel Milliyetçi Hareket Partisi, il partito nazionalista. E questo ha pesato molto nel togliere voto al MHP e allo stesso Akp. Senza contare che la campagna elettorale non è stata fatta su temi locali ma soprattutto su quelli economici.

A Istanbul invece sembrava una gara persa in partenza.
Sì, era una sfida senza pari dal punto di vista mediatico e politico. Il candidato di Erdogan è stato ex primo ministro e ora presiede il Parlamento, era favorito. Mentre Ekrem Imamoglu, era quasi sconosciuto ed era stato solo sindaco di una delle municipalità della metropoli. Ma a prescindere dalle strategie elettorali, o le storie personali, ricordiamoci che Akp rimane il primo partito nel Paese con una percentuale di consensi che supera il 40%.

In quale zone del Paese ha più consenso Erdogan?
All’interno del paese soprattutto nelle province dell’Anatolia centrale c’è lo zoccolo duro che anche dopo queste elezioni ha dimostrato di voler sostenere Erdogan. Perché è la Turchia più tradizionalista, legata ai valori religiosi e non solo. Lì più di dieci anni fa si sono sviluppate “le tigri dell’Anatolia” quelle piccole e medie imprese turche su cui si basa il modello di economia orientata alle esportazioni voluta dal governo. Il potere di Erdogan è ancora saldo.

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