«Sereno? Altro che sereno». Giovanni Tria è un cielo in tempesta. L’invito che gli ha rivolto Giuseppe Conte non può che cadere nel vuoto. Fatto “bersaglio” di “spazzatura” (copyright La Repubblica e il Corriere della sera), con “l’intelligence del Movimento 5 Stelle” (copyright Stefano Buffagni) che mette sotto tiro prima la sua collaboratrice Claudia Bugno alla quale non piace il salvataggio dell’Alitalia e adesso anche la portavoce Adriana Cerretelli, una vita a Bruxelles e al Sole 24 Ore, con Luigi Di Maio che lo vuole fuori da palazzo Sella il 27 maggio, subito dopo le elezioni europee, con la Lega che lo strattona verso l’ultradestra (copyright ancora Di Maio) e il M5S «né a destra né a sinistra», come sua natura, con Matteo Salvini che lo invita a tirare gli orecchi al figlio Stefano il quale salva i profughi con la ong Mediterranea, ebbene in mezzo a tutta questa tempesta, il ministro dell’economia non può certo dormire sonni tranquilli.
Lo agitano le vipere uscite dal nido della politica, non c’è dubbio; ma forse ancor di più i gufi, gli sparvieri, gli avvoltoi che calano sull’economia. E non stiamo pensando all’Ocse, alla Unione europea, al Fondo Monetario internazionale i quali, pure, hanno certificato che l’Italia è in crescita zero o anche sottozero, insomma come aveva avvertito lo stesso Tria (parlando però per se stesso, non a nome del governo, copyright questa volta il presidente del consiglio Conte). No, i rapaci s’annidano nei mercati, tra quelle banche, quei fondi di investimento o quei singoli risparmiatori che debbono comprare titoli di stato. Tra Bot, Btp, Cct, Ctz e affini, ne circolano 1.900 miliardi e quest’anno bisogna rinnovare un ammontare pari a 343 miliardi di euro. Lo spread è a quota 263. Quanto ci costerà?
L’anno scorso solo di interessi il Tesoro ha speso 67 miliardi di euro. Quest’anno dovrà trovare probabilmente tra 4 e 5 miliardi in più. Che s’aggiungono a tutto il resto a cominciare dai 23 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva nel 2020. C’è poi la differenza tra le super-ottimistiche previsioni scritte nella legge di bilancio e la realtà. Il prodotto lordo sarebbe dovuto crescere dell’1,5% invece bene che vada salirà dello 0,3; il disavanzo pubblico anziché al 2,04% sarà almeno al 2,5%; il debito pubblico segna un record dopo l’altro, viaggia a un ritmo accelerato dall’autunno scorso ed è arrivato al 132% rispetto al pil, insomma peggiora non migliora come invece aveva previsto il governo. E le imposte? Altro che tassa piatta, la pressione fiscale alla fine dell’anno sarà più pesante, ancor peggio di quanto scritto nelle carte approvate dal Parlamento. Entro il prossimo venerdì dovrebbe essere varato il Def, documento di economia e finanza che traccia le linee essenziali e disegna la cornice quantitativa entro la quale dovrebbe essere mantenuta la prossima legge di bilancio; dunque, inutile dare i numeri, aspettiamo quelli ufficiali. In ogni caso il ministro Tria che a lungo era sembrato imperturbabile come un monaco zen, adesso è turbato e si turba ogni giorno che passa. Come farà a mettere insieme capra e cavoli? A promettere una flat tax per tutti come vorrebbe Salvini e il raddoppio del reddito di cittadinanza come annuncia Conte in piena frenesia elettorale?
Certo, la moneta si può stampare in quantità pressoché infinita, ma così facendo anche il suo valore tenderà all’infinito, al di sotto dello zero. Certo, anche il debito pubblico può crescere, purché ci sia qualcuno che lo compri a un prezzo basso o comunque ragionevole. E proprio qui casca l’asino. Tria lo sa per questo non sta affatto sereno.
Intendiamoci, non stiamo parlando di tener buoni gli eurocrati di Bruxelles, i tecnocrati di Washington, o gli gnomi di Zurigo. Si tratta di tirar fuori il coniglio dal cappello, trasformare la pietra in oro, moltiplicare pane e pesci; altro che monaco zen, Tria dovrebbe fare il mago, l’alchimista, il santo. Perché le risorse non ci sono. Hai voglia a dire in televisione che il denaro non manca mai. Certo, la moneta si può stampare in quantità pressoché infinita, ma così facendo anche il suo valore tenderà all’infinito, al di sotto dello zero. Certo, anche il debito pubblico può crescere, purché ci sia qualcuno che lo compri a un prezzo basso o comunque ragionevole. E proprio qui casca l’asino. Tria lo sa per questo non sta affatto sereno. C’è all’interno del governo (non solo coté grillini, ma anche coté leghisti) chi vorrebbe usare le riserve auree della Banca d’Italia (l’oro della patria o del popolo, come preferite) per finanziare la spesa pubblica. Non sarebbe corretto, quello è fieno in cascina che serve per compensare (almeno in parte) gli effetti di una prossima tempesta. Fuor di metafora, se ci troviamo di fronte a un default e chiediamo l’aiuto del Fondo monetario internazionale, servirà da garanzia reale come accadde negli anni ’70 e come venne evitato nel 2011 con la crisi di governo e la stangata montiana. Tria conosce bene la storia recente e si mette le mani nei capelli.
C’è, sempre dentro il governo, chi vorrebbe spingere le banche a comprare più titoli di stato sotto la regia e la garanzia della Banca d’Italia. L’attacco a Ignazio Visco, al di là di tutte le recriminazioni sulle banche, è diventato più virulento anche per questo. Dal primo novembre Mario Draghi non sarà più a capo della Banca centrale europea. Il prossimo presidente, chiunque esso sia, non avrà certo un occhio di riguardo verso una Italia spendi e spandi. Dunque, meglio correre ai ripari piazzando un governatore “amico”. Non succube del governo, sia chiaro, non una marionetta né un re travicello (in Banca d’Italia non ce ne sono e anche altrove non è facile trovarli, questo lo sanno anche i populisti), ma comunque uno per così dire consapevole dei superiori interessi nazionali. L’obiettivo non è facilmente raggiungibile, in ogni caso nessun banchiere centrale potrebbe mai spingere le banche, già piene di titoli di stato, a gravare ancor più i loro bilanci, gonfi oltre tutto di crediti deteriorati molti dei quali inesigibili. Il sistema bancario italiano non è al sicuro. E lo dimostra la stangata che ha subito in borsa. Introdurre una sorta di obbligo, più o meno formale, ad acquistare Btp equivale a provocare una crisi sistemica. Tria se ne rende conto e si preoccupa.
C’è, poi, per lo più all’esterno del governo (ma non solo) chi riporta in ballo anche le vecchie idee di una super-patrimoniale. Maurizio Landini, segretario della Cgil, la chiama contributo di solidarietà. Ma se fosse solo questo avrebbe un impatto minimo. Quindi ci vorrebbe un colpaccio ben più consistente. L’economista Karsten Wendorff, sostiene che le famiglie italiane, secondo i dati riportati da uno studio della stessa Bundesbank, hanno un patrimonio medio pari a tre volte una famiglia tedesca; un taglio del 20%, et voilà i conti tornano e l’Italia riparte. Wendorff parla genericamente di patrimonio netto degli italiani. Da questa definizione, però, bisogna togliere gli immobili. Impensabile un prelievo forzoso del 20% sul mattone a meno di non volere le piazze invase di forconi. Lo si è visto con la imposta sulle secondo case. Dunque, bisogna concentrarsi sulla ricchezza finanziaria che, secondo i calcoli di Banca d’Italia, ammonta a 3.800 miliardi. Il 20% sotto forma di titoli di solidarietà equivale a 760 miliardi. Dove prenderli? Duecentottanta miliardi potrebbero arrivare drenando i conti correnti che ammontano a oltre 1.400 miliardi. Restano 480 miliardi che andrebbero prelevati dal portafoglio titoli: obbligazioni italiane ed estere, Btp, azioni e via elencando. Che cosa accadrebbe sul mercato a fronte di una ondata di vendite così massiccia? Le quotazioni crollerebbero di colpo e si provocherebbe un gigantesco panic selling. La patrimoniale, insomma, sarebbe una cura peggiore del male. Anche questo è ben noto a Tria, e gli tremano i polsi.
Le cose sarebbero diverse se non ci fosse il mite ministro che nell’autunno scorso avrebbe voluto procedere con i piedi di piombo, presentare un realistico deficit dell’1,6%, prendere atto del rallentamento cominciato in estate, dare come traguardo di crescita del prodotto lordo un già ottimistico un per cento, introdurre il reddito di cittadinanza con giudizio e nella seconda metà dell’anno, spostare al terzo scaglione la partenza di quota 100 per le pensioni, e invece è stato messo con le spalle al muro per ragioni elettorali? Insomma se ci fosse un altro, un Giancarlo Giorgetti (visto che Di Maio vorrebbe dare il ministero alla Lega e ammesso che Salvini sia pronto a prendere lui la croce) davvero potrebbe trasformare il bilancio dello stato in una cornucopia? Certo che no. Se l’Italia non cresce non c’è trippa per gatti, come avvertì il sindaco Ernesto Nathan che nel 1907 raddrizzò il bilancio di Roma capitale. La politica può anche essere messa al primo posto, ma la realtà viene ancor prima.