Il problema dell’occupazione in Italia? Sono le tasse sul lavoro

Tassando la risorsa più scarsa che abbiamo, il lavoro, di fatto stiamo uccidendo l’occupazione. Meglio sarebbe tassare consumi e proprietà. Aumentare l'Iva e reintrodurre la Tasi significa perdere voti? Se la coperta è comunque corta, meglio tirarla dalla parte giusta

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L’Italia è tra i Paesi avanzati in cui si pagano più tasse sui redditi e sui profitti, in una parola sul lavoro, che sia dipendente o imprenditoriale. Sommando i contributi alla sicurezza sociale (l’Inps nel nostro caso), e le imposte che si riferiscono direttamente ai redditi da lavoro e da capitale, si arriva a un gettito che è circa del 27,3% del Pil. In ambito di incidenza sul prodotto interno della tassazione sui contribuenti ci superano solo una piccola minoranza degli altri Paesi Ocse, come Svezia, Francia, Belgio, Danimarca e Austria.

E questo lo sapevamo. Il punto è che rispetto alle tasse pagate non esiste solo un tema quantitativo, ma anche qualitativo. L’Italia rimane nel gruppo di quei Paesi che per raccogliere risorse punta di più sulle imposte sul reddito, sulle persone e sul loro lavoro, rispetto a quelle sui beni e sulle proprietà. Il 65,6% del gettito totale viene da tasse della prima tipologia, e solo il 34,4% da quelle sui consumi o sulle abitazioni, per esempio.

Non è un caso se, nella classifica dei Paesi che vedono l’incidenza maggiore di queste ultime imposte, siamo nella seconda metà.

Moltissimi economisti ormai sostengono che questa strada sia sbagliata, che sia più vantaggioso spostare il peso del fisco dalle persone alle cose, dal lavoro al consumo. Che sia meglio aumentare l’Iva e ridurre l’Irpef per esempio, tenere o incrementare la Tasi o l’Imu e restringere il cuneo fiscale.

La ragione è che le imposte su redditi e profitti sono un disincentivo alla crescita e alla produttività, nonché all’occupazione, dal momento che ogni ora di lavoro aggiuntiva viene tassata in modo pesante.

Se le tasse sulle proprietà e i consumi da un lato aiutano il risparmio (ora in calo), dall’altro disincentivano la rendita proveniente dal lavoro. E questo succede soprattutto in quei Paesi, come l’Italia, in cui vi è una crisi cronica dell’occupazione e della produttività.

Non è un caso, infatti, che tra i Paesi in cui invece le imposte su beni e proprietà ancora pesano molto poco sul totale vi siano quelli con tasse molto alte, come Svezia, Belgio, Francia, o gli USA. Paesi in cui il fisco non è certo così pesante, ma in cui storicamente i tassi di occupazione sono altissimi, le aziende sono da sempre molto produttive, e in cui effettivamente ci si può permettere di basare il peso della tassazione su queste senza danneggiarle troppo, poiché hanno spalle molto robuste.

Al contrario, tra gli Stati che più puntano sulle tasse sui beni e la proprietà vi sono Paesi giovani, economie emergenti, realtà che puntano sull’attrazione di investimenti. Dalla Turchia a Israele, dalla Corea del Sud all’Ungheria. C’è anche la Grecia post-recessione.

Si tratta di Paesi privi di una base industriale interna solida, fatta di marchi fondati e radicati, e che invece punta sull’arrivo di multinazionali, oppure di Stati che hanno mirato a una crescita veloce dell’occupazione, da non ostacolare con eccessivi cunei fiscali.

All’Italia piace pensare di fare parte del primo gruppo, dell’aristocrazia economica europea occidentale, fatta di Paesi ricchi con industrie importanti e produttive, che può permettersi un’alta tassazione per garantire i migliori servizi.

Il declino degli ultimi decenni e i record negativi dell’occupazione, però, dovrebbero farci riflettere. Avremmo bisogno di una scossa, di diventare un Paese sì emergente, ma che emerga piuttosto da un lungo letargo, che punti sul lavoro e lo tassi di meno.

Del resto, a quanto pare vi è una correlazione tra l’incidenza sul totale della tassazione sui beni e le proprietà e la crescita del Pil, almeno a guardare i dati più recenti, quelli dell’ultimo trimestre disponibile.

Correlation is not causation, e i fattori che generano crescita sono anche molti altri, lo sappiamo. Ma negli ultimi anni quei Paesi che sono riusciti a mantenere più leggere, sia in proporzione al Pil che rispetto al totale del gettito, le tasse sul lavoro, hanno avuto performance migliori non solo dell’Italia, ma anche degli altri Paesi “maturi” dell’Europa occidentale.

In Italia, invece, preferiamo tassare la risorsa più scarsa che abbiamo, il lavoro (con le tasse su redditi e profitti degli individui) più di quanto faccia la media degli altri Paesi Ocse, più di quanto facciamo con le imprese, imitando altre realtà in cui il tasso d’occupazione è tuttavia di 10-15 punti più alto del nostro.

Non si tratta di argomenti semplici da trattare per i politici. La tassazione dell’Iva è vista come il fumo negli occhi. Aumentarla può rappresentare la pietra tombale su una maggioranza di governo.

Accennare che si potrebbe reintrodurre la Tasi sulla prima casa per finanziare un importante taglio del cuneo fiscale vuol dire sconfitta certa in una campagna elettorale.

Eppure ci sono forme di tassazione dei consumi progressive, con esclusione dei prodotti più necessari, che però possano garantire quel gettito necessario all’abbattimento delle tasse sul lavoro, dei contributi, che pesano come un macigno sulla crescita della nostra occupazione.

Dobbiamo dirlo, rispetto ai decenni scorsi l’importanza delle tasse sui beni e le proprietà è sì cresciuta, almeno rispetto al Pil, ma non ha provocato un calo delle altre.

La coperta è corta, e nessuno ha il coraggio di tirarla troppo, per non traumatizzare un Paese in fondo conservatore, cui piace parlare di cambiamento senza volerlo realmente.

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